Viviamo nell’epoca della finanziarizzazione dell’economia, dell’oligarchia finanziaria onnipotente che dirige la produzione, del capitalismo collettivo. Una finanziarizzazione necessaria a sostenere l’economia “reale” in panne, ad assorbirne il surplus strutturale. Un sistema che ha formato il mercato mondiale, che impone, consiglia, accompagna le imprese alla penetrazione di questo mercato.
Che tipo di imprese? Non certo quelle relative al vecchio capitalismo individualista del privati proprietari di mezzi e capitale, ma quello più avanzato relativo al nuovo capitalismo associato e organizzato, i cui capitali sono controllati e impiegati dai quadri della finanza. Le grandi società che risultano dalle fusioni e acquisizioni in corso sono dirette da gestori di professione, i manager, burocrati privati che formano la classe borghese al servizio del capitale. Entrambi, gestori di imprese e gestori di capitali, manager e banchieri, formano la classe burocratica, i mandarini al servizio del capitale: essi sono slegati dalla proprietà privata borghese, ma hanno il controllo e centralizzano le leve del potere economico.
Dal capitalismo mercantilistico al capitalismo monopolista europeo
Già Marx aveva rilevato l’enorme progresso che le innovazioni giuridiche afferenti alle società per azioni, allora ai primordi, avrebbero apportato allo sviluppo delle forze produttive; progresso insito nella capacità di mobilitare capitali enormi, sparsi e parcellizzati secondo una guida e un piano. Egli vedeva nelle società per azioni un punto di partenza, una base economica all’interno delle società capitalista mature per la transizione verso il socialismo. Separando la proprietà dalla gestione, a seconda del grado di socializzazione finanziaria e azionaria, il capitalismo elimina gradualmente il capitalista senza compromettere il progresso materiale che il capitalismo comporta.
Oggi, concretemente questa tendenza si manifesta nel capitalismo rappresentato da un sistema di società gigantesche, con migliaia di salariati, tra cui gli stessi alti dirigenti, le cui strutture organizzative sono complesse, adatte alla necessità di estendere l’attività su più Stati e territori. In questo contesto, la proprietà conta meno del controllo effettivo. Di conseguenza la nuova classe di manager rimpiazza sistematicamente a partire dagli anni ’80 gli imprenditori, figura ormai più mitologica che reale. La trasformazione delle imprese in enormi società industrial-finanziarie multigruppo rende sempre più difficile, per chiunque, detenere una parte importante del capitale (ma in molti casi famiglie fondatrici restano azionisti dominanti seppur non maggioritari). I direttori di professione diventano così i decisori principali, insieme ai banchieri, nell’orientamento strategico della gestione delle imprese detenute da centinaia di proprietari distanti e sconosciuti gli uni agli altri: l’azionista tende allora alla passività del rentier.
Questi burocrati del settore privato entrano nella struttura di potere delle imprese, e ne modificano a loro volta la natura. Quando la burocrazia capitalista si forma in classe amministrativa propria, e si consolida anno dopo anno uscendo dalle filiere delle scuole di commercio e dalle facoltà di economia, vuol dire che il capitalismo ne ha bisogno perché evolve a passo sicuro verso il modello della direzione centralizzata e iperprofessionalizzata. Una classe si incarica di guidare i grandi gruppi nell’interesse degli azionisti, ma autonomamente dal loro apporto strategico, nell’interesse nazionale con cui questi gruppi, benché internazionali, si fondono, verso nuove opportunità di profitto.
Significa che poteri istituzionali di tipo nuovo – BCE e UE in particolare – portano in avanti il capitalismo manageriale e si incaricano di farlo trionfare contro il vecchio capitalismo imprenditoriale, vecchio ma pur sempre ben radicato, attraverso le regolamentazioni necessarie a far trionfare l’interesse collettivo del Capitale al di sopra degli interessi particolari dei capitalisti. Di qui la lotta – soprattutto in Europa, dove il capitalismo collettivo necessitante una direzione centrale è più giovane rispetto al mondo anglosassone – tra vecchi e nuovi capitalisti. Essa si esprime nel rigetto dell’Euro e dell’Europa da parte dei populisti e sovranisti, da una pluralità di partiti borghesi in conflitto rispetto alla posizione da prendere tra l’andare avanti, cioè assecondare la tendenza all’edificazione di un completo capitalismo degli oligopoli supportati dagli Stati e incentrato sull’unità federale dell’Europa, o tornare indietro, al vecchio sistema economico nazionale.
Intraprendere è diventata dunque – soprattuto a partire dagli anni ’80 e grazie alla spinta propulsiva decisiva della crisi del 2008 – un’attività sempre più collettiva. I capitalisti cooperano, almeno nei Paesi più avanzati, tramite cartelli più o meno legali, associazioni, joint venture, fusioni, accorpamenti e acquisizioni, garantite e scrutate dalla Borsa. Un’attività relazionale che sviluppa una logica di sistema e di piano lontana anni luce dallo spirito di bottega, pragmatico e terra terra, del vecchio imprenditore.
La proprietà privata del capitale perde importanza, essa regna solo in una nicchia delle piccola produzione. Ma per una produzione di scala socializzata – l’unica in grado di garantire profitti e sostenibilità di sistema (e che i capitalisti individuali in primaria concorrenza non possono concepire né permettersi) – il capitalismo necessita di capitale sociale privato, controllato centralisticamente da professionisti preposti unicamente ai montaggi finanziari e alle strategie di sviluppo. Questa tendenza innova e modifica il sistema di produzione capitalistico, lo sopprime gradualmente nella sua forma originaria, ne crea una nuova che convive con la vecchia, mentre la scalza, generando una lotta intercapitalistica tra due forme economiche diverse e inconciliabili.
Nella fase di transizione verso questa forma più evoluta di capitalismo, il sistema finanziario globale non sa che farsene del padrone che non si associa, che non diluisce il suo capitale in un sistema più articolato di organizzazione, e dunque che non ceda di fatto il controllo alle direzioni generali dei gruppi finanziari-industriali dalla stazza appropriata per approfittare delle opportunità che il mercato offre e garantire così la riproducibilità del sistema.
Approfittare significa: scovare occasioni di profitto tramite l’ampliamento smisurato della produzione e la conseguente pianificazione delle operazioni, la coordinazione degli interventi, la regolamentazione della produzione e del commercio, la ripartizione dei settori e delle zone di competenza, se necessario in associazione strategica con altri colossi.
La concorrenza è solo un intralcio in questo genere di operazioni, almeno la concorrenza spiccia a cui si danno gli attori di base del mondo economico. Concorrenza conseguentemente soppressa dall’avanguardia capitalistica quando trascina i capitalisti verso un nuovo ordinamento, quello in cui i giganti industrial-finanziari si costituiscono in monopoli, i quali soli consentono lo sviluppo delle forze produttive fino a un certo grado capace di garantire profitti, sorpassato il quale la concorrenza diventa nociva.
Il carattere antagonistico della produzione primaria rispetto all’oligarchia finanziaria e al monopolio industriale rappresenta un inceppo costante finché i due modi convivono, un limite e un problema che il sistema finanziario risolve mano a mano liquidando le attività non redditive e aggregandole a gruppi più strutturati. Seppur restando nella cornice del capitalismo, il vecchio sistema produttivo è pian piano smantellato mentre il nuovo lo rimpiazza. L’appropriazione dei profitti e i mezzi produttivi restano di proprietà privata secondo i canoni borghesi. Ma le manfrine finanziarie a cui il capitalismo si è dato non possono che nascere e svilupparsi da questa complessificazione, da questo passaggio da tanti piccoli capitalisti al capitalista collettivo, da una socializzazione della produzione.
La natura collettiva dell’impresa e il sostegno dello Stato
Le imprese oggi investono congiuntamente, si ripartiscono zone e settori di competenza e profitti. Il meccanismo collettivo è all’opera come moltiplicatore delle forze produttive diretto da manager e coordinato e controllato dalle grandi banche. La crescita esponenziale e rapida e la conseguente complessificazione rendono impossibile al singolo imprenditore di dirigere un gruppo.
Ciò che conterà d’ora in poi, e che sarà in grando di fare la differenza, sarà dunque la capacità di uno Stato, o di un’unione di Stati, nel concentrare tutti gli sforzi di Paesi interi, e subordinare tutta la vita sociale di una Nazione, a organizzare le aziende private, e nazionalizzarle se in pericolo.
Le imprese che cooperano pretendono e ricevono aiuti di Stato, sono beneficiarie di un welfare tagliato su misura dei loro nuovi bisogni. Lo Stato prende cura della loro riuscita, si incarica di proteggerle, di attrezzarle come può. Dunque non è vero che i capitalisti vogliono meno Stato in generale, vogliono meno Stato per i lavoratori e più Stato per i loro interessi. Questo Stato al servizio esclusivo del Capitale si trasforma in polizza assicurativa degli affari, anche dei più rischiosi o truffaldini, come il Pentagono e la CIA lo sono per le grandi multinazionali americane. Perché le imprese sono sempre legate alla Nazione di provenienza, sono sempre imprese, dunque capitali, nazionali con attività all’estero, la transnazionalizzazione essendo il frutto del movimento di capitali necessario a sostener il modello produttivo neo-liberista.
La produzione e la fonte dei profitti si internazionalizzano, ma la base nazionale della proprietà e del controllo resta. Il processo sociale mobilizzato dai grandi gruppi che agiscono coordinatamente in questo capitalismo collettivo sotto la spinta delle grandi istituzioni monetarie private e pubbliche è una tappa verso la socializzazione, ma è in più grande contraddizione qualitativa con essa, dato che si fonda sull’estrema privatizzazione dei profitti.
Per questo, solo una forza comunista che ne prenda il controllo può trasformarne la natura nell’ottica di una socializzazione produttiva integrale, comandata secondo una logica di piano, più completa di quella operata dalle istituizioni monetarie, dalla Borsa e dai CDA, che si trasformi in ricchezza collettiva grazie alla proprietà sociale – non solamente diffusa e trasversale tra più capitalisti associati – dei mezzi di produzione.
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