Alla luce della Liberazione di Aleppo e dell’eroica vittoria della Resistenza sulle orde fasciste islamiste in Medio Oriente è opportuno fare alcune considerazioni sul posizionamento di certi compagni e di certa stampa di sinistra occidenale sulla vicenda.
Supportati e confortati da un certo mondo accademico che si vuole specialista della questione siriana e in generale de Medio Oriente, nel corso della guerra alcuni settori – antagonisti, radicali e trotzkisti – hanno sposato, contro ogni evidenza, la tesi imperialista della “rivoluzione siriana”. Nonostante la palese natura reazionaria della ribellione in corso, della sua sostanziale dipendenza dalle potenze regionali ostili al governo siriano, del suo carattere settario e mercenario, questi settori continuano ancora ad augurarsi il rovesciamento del governo siriano, insistendo sul mai verificato carattere “giovane e popolare” originario della sollevazione “anti Assad”. Parallelamente, fanno del tutto per demonizzare la Resistenza messa in opera dal governo siriano, da Hezbollah e dalle milizie popolari – appoggiate dall’aviazione russa e dai consiglieri iraniani – descrivendola come un “opposto imperialismo”.
Ovviamente, non perderemo neanche tempo a confutare un’idiozia del genere, e neppure staremo qui a sottolineare il cinismo e l’autoreferenzialità degli ambienti di sinistra “puristi” occidentali che fanno gli schizzinosi poiché l’asse della Resistenza che in Siria si oppone alle manovre imperialiste e al terrorismo non è di loro gusto in quanto composto anche da elementi non socialisti, conservatori, non in linea con le fantasie ribelli degli antagonisti di casa nostra. Quel che ci preme sottolineare invece, è che questi atteggiamenti intellettualistici e distaccati – quando non palesemente avversi alla lotta che la Siria conduce per restare un Paese indipendente e sovrano, non preda dei centri finanziari e militari dominanti collocati in USA e UE – impediscono al mondo della sinistra di classe che segue questa corrente di misurare la portata storica, l’importanza epocale della sconfitta delle forze imperialiste a Aleppo.
Eppure, se applicassimo alla Resistenza palestinese i criteri esclusivi utilizzati da questi compagni “puristi” nei confronti della Resistenza siriana – ossia il fatto che vi siano componenti variegate e spesso contraddittorie e conservatrici al suo interno; o il fatto che per ragioni identitarie e opportuniste alcuni groppuscoli di estrema destra occidentale si trovano a sostenere il governo siriano – ne risulterebbe che la sinistra comunista non dovrebbe schierarsi a sostegno della lotta del popolo palestinese, in quanto:
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tale resistenza contiene elementi di destra (Hamas), che oggi purtroppo la egemonizzano.
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alcuni settori della destra italiana sostengono a loro volta la causa palestinese (in particolare di provenienza AN e fin dentro Casapound e Forza Nuova)
Guai dunque a schierarsi, né sporcarsi le mani, vista la compagnia!
Questi sarebbero gli “argomenti” usati dai circoli ribelli radicali e movimentisti per criminalizzare l’appoggio che i comunisti e le forze operaie internazionali danno alla Resistenza siriana e alle esperienze popolari in corso nel Donbass e in generale all’est dell’Ucraina. Chiunque osi appoggiare tali esperienze viene immancabilmente marchiato dall’epiteto di cripto fascista, rossobruno e via diffamando.
Tuttavia, e purtroppo per questa rumorosa quanto autorefenzale corrente politica, la resistenza all’oppressione imperialista – sia essa palestinese, siriana, ucraina – non si giudica secondo criteri politicisti liberal-radicali eurocentrici, bensì dal suo radicamento popolare nel Paese aggredito, dalla necessità di autodeterminazione di quel popolo, dalla lotta per l’egemonia interna alle sue componenti, equilibrio determinato di volta in volta dai rapporti di forza di classe nazionali e internazionali.
Dentro queste contraddizioni bisogna saper portare avanti il punto di vista di classe proprio alle forze comuniste, non tirandosene fuori.
Al contrario, usare infantili polemiche tutte italiane, cioè interne e specifiche a un Paese integrato al sistema imperialista, e proiettarle schematicamente su Paesi liberatisi pochi decenni orsono dal nostro colonialismo e che cercano una via di sviluppo indipendente, al fine di non prendere posizione nei conflitti in corso se non quella dell’equidistanza illuminata e sdegnosa (che poi prende sempre per bersaglio gli stessi obiettivi dell’imperialismo USA/NATO) è comodo, genera rendite di posizione ribelliste nei media e nel mondo della cultura occidentale, produce vantaggi dello stare sempre dalla parte della critica.
Occorre invece aver chiaro un punto, per posizionarsi sulle questioni internazionali su una linea che sia realmente comptabile con gli interessi delle classi lavoratrici occidentali: l’imperialismo oggi è uno solo, quello dei Paesi capitalisti di lunga data che ne hanno raggiunto il grado di maturità economica. La triade imperialista (USA/UE/Giappone), esercita un “imperialismo collettivo” (S.Amin), a guida egemonica USA, attuato attraverso il monopolio consolidato nell’ambito militare, tecnologico, finanziario e mediatico su scala mondiale; le cui politiche tendono ad un unico fine: la rapina e il controllo delle risorse dei Paesi più arretrati e in via di sviluppo, l’egemonia mondiale, e il contenimento dell’emergenza economica di Paesi che si sono sottratti nel corso del ventesimo secolo alla tutela delle potenze post coloniali.
Questo imperialismo collettivo USA-NATO, unificato nella sostanza, è il principale nemico dei lavoratori e dei popoli, contro cui bisogna concentrare tutte le forze.
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Nel dettaglio, le posizioni che da sinistra pronano l’equidistanza nei conflitti in corso, quando non chiaramente l’avversione nei confronti dei Paesi aggrediti, sono portate avanti in Italia dalla stampa moderna e radicale: testate purtroppo influenti come Internazionale, Left, il Manifesto o i nuovi media hipster come Vice, sono in prima linea nella costruzione e promozione di questa visione seducente quanto irresponsabile delle grandi questioni internazionali.
Imbarazzate è l’allineamento di una certa nuova intellettualità “di sinistra” (a sinistra dei neocon USA, per la verità) agli interessi dell’imperialismo, dall’asse NATO-Petromonarchie-Israele. Le forze che compongono questa alleanza hanno messo a ferro e fuoco il Medioriente dal 2001 proprio come le forze dell’Asse Roma-Berlino misero a fuoco l’Europa 70 anni fa. L’invasione dell’Iraq, dell’Afganistan, della Libia e la feroce destabilizzazione della Siria rappresentano qualcosa di analogo, per intenti egemonici e forza distruttiva, all’Operazione Barbarossa che gli hitleriani scatenarono contro l’URSS.
Come è possibile allora che la sinistra occidentale – da quella di governo, a quella accademica, a quella radicale e movimentista – si sia schierata senza eccezioni, palesemente o sotto pretesto di equidistanza dai belligeranti, con questo moderno fascismo, mentre si vuole fieramente anti-fascista in casa propria? Non si vantano forse di essere il baluardo anti-fascista delle nostre società europee minacciate dal “razzismo, dal nazionalismo e dal patriarcato”?
Si tratta di ingenuità, di impreparazione teorica, o di vera e propria intelligenza col nemico?
Sicuramente, è il risultato di un’offensiva egemonico-culturale di lunga data, che vede ovviamente Stati Uniti e Gran Bretagna in prima fila – dove fioriscono gli studi imperiali sul Medioriente, in università, pensatoi, fondazioni e think thank. Si tratta di una lunga, graduale, ma sicura costruzione del consenso attraverso la messa a disposizione materiale di fortezze culturali al centro di una fitta rete di rapporti sociali, di ricerca, pubblicazione, insegnamento, consulenze, collaborazioni di stampa e missioni all’estero, dipendenti dallo sviluppo della politica del Capitale finanziario nell’area mediorientale e in generale ovunque la predominanza della dominazione imperialistica sia messa in discussione.
La rendita imperialista d’altronde – ossia l’estrazione dei superprofitti dovuta al sovrasfruttamento delle risorse delle periferie del sistema mondiale – permette il mantenimento di istituti culturali di livello elevato che elaborano gli intellettuali organici al modo imperialistico di sfruttamento mondiale. Le istituzioni dei Paesi anglosassoni, per via della loro predominanza economica, diffondo le linee di avanguardia egemonica, a cui il mondo accademico e culturale non può che allienarsi per sopravvivere, ma che al contempo contribuisce a formulare. Questa offerta monopolistica e di alto livello attira inevitabilemente a sé e crea un ceto intellettuale raffinato che aspira al massimo riconoscimento e alla massima visibilità che solo questi istituti oggi possono accordare.
In conseguanza, chi lavora oggi nel campo delle ideologie e della produzione culturale, accademica e mediatica è portato a contribuire spontaneamente inesorabilmente all’attribuzione di una validità “scientifica” all’apparato narrativo dell’ideologia dominante. Un rapporto dialettico che crea quel blocco intellettuale in grado di fornire il sostrato “scientifico” al discorso dominante, in parallelo declinato sotto forma di propaganda spiccia alle masse. Siamo di fronte a un meccanismo implacabile, dove si disattivano pian piano gli anticorpi del pensiero critico cooptando chi dovrebbe produrre pensiero critico, orientando la “critica” degli intellettuali verso gli obiettivi strategici delle classi dominanti, siano essi la distruzione delle tutele del lavoro o dei paesi indipendenti ex coloniali.
Per ritornare alla liberazione di Aleppo – e all’ignobile flusso narrativo di menzogne e mezze-verità riversato dai media, alla manipolazione delle coscienza, perseguita con professionale ossessività – è facile vedere come su queste solide basi ideologiche prodotte dalle più raffinate istanze culturali sorte dai sistemi sociali più avanzati, sia possibile organizzare a valle un’articolata, pervasiva, rodata, semplice ed efficace propaganda sugli aspetti internazionali più complessi. Propaganda che si stacca dalla realtà materiale e dalla natura reale dei conflitti e si esprime in una narrazione stereotipata, manichea e infantilizzante.
Per citare solo alcune storie, falsi già dimenticati ma che sono circolati e si sono sedimentati nell’inconscio collettivo essendo stati trattati come importanti verità dai media nel corso della guerra: la “gay girl of Damascus” nel 2011, gli “attacchi chimici del regime”, gli infiniti “ultimi ospedali di Aleppo”, la “piccolo Bana”, il “clown di Aleppo” del 2016. Una serie di favole per bambini che per larga parte dell’opinione pubblica occidentale hanno rappresentato l’unica copertura mediatica della guerra, il solo punto di contatto, mistificato e divergente, con la realtà effettiva: la distruzione del Medioriente operata dai nostri governi attraverso milizie mercenarie, bombardamenti occasionali, truppe speciali sul terreno e sanzioni. Storie avallate da coloro che sono presentati al pubblico, ignaro e sopraffatto da questioni tanto complesse e distanti, come specialisti, di cui dovrebbero fidarsi per orientare il proprio giudizio.
Una trama narrativa fatta di umanitarismo generico e universalismo astratto per un pubblico pronto all’indignazione a-razionale, sdegno suscitato e indirizzato contro gli aggrediti per impedire l’identificazione delle masse occidentali con i popoli oppressi e l’empatia nei confronti dei trucidati. Uno stillicidio emotivo fabbricato per sviare dai veri crimini, quelli operati dai nostri governi, dai nostri alleati e dai nostri mercenari sul terreno. A cui sembra non esserci argine da quando appunto le classi intellettuali e artistiche si sono fatte cooptare dalla borghesia imperialista e atlantica, preferendo trarre la loro legittimità dall’accettazione nei circoli liberali che contanto, come visto sopra, piuttosto che dalle classi lavoratrici: cosa sempre più difficile da quando le organizzazioni dei lavoratori, i partiti, i sindacati e le associazioni che si rifanno alla tradizione del movimento operaio sono in una fase di ritirata e di faticosa e diffiile ricostruzione in seguito alla sconfitta storica dell’esperienza sovietica.
Negli ultimi 30 anni si è quindi assistito a un processo che ha condotto gli intellettuali di sinistra organicamente in seno all’élite accademica e culturale borghese. Quelli che erano i marginali e i ribelli di una volta, sono stati promossi a posti influenti nei media, università e instituzioni pubbliche. E più l’influenza ideologica della sinistra di classe scompariva a causa dello sfaldamento del suo blocco sociale e politico di riferimento, più questi intellettuali e artisti erano accolti a braccia aperte dalle classi dominanti. Ciò non può definirsi come un paradosso. Al contrario, le istituzioni erano pronte a lasciare un certo grado di “discorso radicale” individualista, astratto e decorrelato dalla costruzione di un rapporto di forza favorevole al Lavoro diventare il contrappunto ribelle dell’ideologia neoliberale, controcanto innocuo, perché svuotato infine dalla sua carica realmente anti-capitalista, in quanto discorso sconnesso dalle forze sociali – i lavoratori – che sole possono realmente cambiare la storia; sostituite dalla credenza in una mitologica “società civile” formata da privati e individui organizzati in aperta contrapposizione alla “società politica”, per definizione cattiva; nel ruolo dell’individuo, dell’intellettuale romantico in lotto contro il Sistema. Insomma una regressione ideologica maggiore, spacciata per novità e addirittura per certuni come ritorno alle origini del marxismo.
Eppure, anche ora che 5 anni di propaganda collassano pateticamente sotto il peso della sconfitta militare a Aleppo, certa sinistra non demorde, e con sovrana indifferenza guarda altrove o condanna la Liberazione di Aleppo con giudizi moralistici di carattere umanitario. Tra silenzio imbarazzato, posizioni idealistiche o benaltrismo nascondono i loro errori teorici e pratici, che hanno ridotto la sinistra ribelle ad comportarsi per cinque anni come una frazione di “socialisti per il salafismo“.
Per fortuna, la realtà materiale si è incaricata di mettere a nudo anni di menzogne. La vittoria della Resistenza siriana aiuta più di mille analisi a chiarire ciò che anni di logorroici discorsi teorici hanno solo contribuito a confondere: la lotta per la pace è anti-imperialista o non è, e l’imperialismo oggi è quello USA-NATO. Lo sforzo intellettuale che consiste nel biasimare le vittime facendole passare per carnefici è solo una volgare truffa intellettuale, opportunista e collaborazionista. Non c’è pace per chi non vuole pace, cioè l’imperialismo, e finché esso esisterà, ogni equidistanza è solo una cinica postura intellettuale che diventa appoggio implicito per la reazione, un’arma che il dominante non si priverà di usare per i suoi intenti di dominio.
Il Generale Issam Zahredine è uno che meritava di vedere con i suoi occhi una Syria liberata