Più di un mese è passato da quando i russi hanno invaso l’Ucraina in quella che è a tutti gli effetti una guerra per procura fra la Federazione Russa e gli USA che dirigono le operazioni del regime di Kiev. Nella stampa borghese italiana prevale da un lato il racconto emozionale, quasi cinematografico, dei fatti bellici – distruzioni, profughi e mitizzazioni della resistenza ucraina – dall’altro si procede a pié sospinto verso un coinvolgimento che è, ad oggi, a tutti gli effetti una cobelligeranza in appoggio al governo di Kiev. Se si sorvola sulle uscite più folkloristiche ed imbarazzanti della stampa – come le richieste di tirannicidio verso Putin o i vergognosi paragoni fra la Resistenza italiana e la difesa ucraina – e del governo stesso, ci si rende conto che, a differenza di altri paesi europei (per es. la Francia, anche un po’ la Germania, per non parlare della “riottosa” Ungheria), ciò che emerge è la totale aderenza della borghesia italiana alle istanze più aggressive dei circoli statunitensi e l’incapacità di salvaguardare i propri interessi economici.
La guerra e noi: il fronte interno
Pochi giorni fa, sull’onda dell’ennesima esplosione emotiva dovuta ai fatti di Bucha, i latrati sulla necessità dell’indipendenza energetica dal gas russo hanno ricominciato a farsi sentire più forti che mai tanto da dover costringere Draghi a prodursi in comiche, quanto poco comprensibili, arringhe al popolo su cosa preferisse fra “la pace e i condizionatori” [1] – del resto il tanto osannato blocco dell’import del gas russo non si capisce dove porterebbe alla pace, semmai è più probabile porti al suo opposto, con la prospettiva di trovarsi con una tensione diplomatica alle stelle e senza “condizionatori”. Ma si sa, il costo delle sanzioni e della guerra per procura le borghesie dei paesi della NATO lo stanno scaricando, come da prassi, sui lavoratori e sulle fasce più deboli, eppure appare chiaro che, in nome della sudditanza agli Stati Uniti, un paese come l’Italia che dipende dal gas russo per il 46% (con un incremento rilevante negli ultimi anni) [2] rischi di subire un danno enorme perfino per una larga parte di borghesia stessa, con centinaia di imprese costrette a rallentare la produzione con stime del governo che ipotizzano un crollo del 25% dell’intera manifattura italiana [3].
Appare evidente che, rebus sic stantibus, il famoso muro compatto del fronte NATO potrebbe registrare ulteriori scricchiolii. Tuttavia per il momento, almeno in Italia, prevale la richiesta del sacrificio collettivo in nome di non meglio precisati valori di libertà, democrazia e “indipendenza”. Se ci sono voluti due anni di pandemia affinché l’emorragia di risorse tagliate dalla sanità pubblica venisse minimamente tamponata con le briciole del PNRR, è bastato un mese di guerra per procura e racconto emozionale per cedere ai ricatti della NATO sull’incremento delle spese militari che aumenteranno di ben 13 miliardi di euro nei prossimi 2 anni, e tutto ciò solo per ottemperare “finalmente” ai desiderata dell’alleanza atlantica sulla spesa del 2% di Pil che ogni membro dovrebbe essere tenuto a investire [4].
In nome di tutto questo – in aggiunta alla pervasiva propaganda bellicista di questi mesi che ha visto voci dissonanti fra gli intellettuali borghesi venire a vario titolo mediaticamente linciati per intelligenza col nemico – si registra un’ulteriore stretta repressiva verso quei settori dei lavoratori che si sono opposti attivamente alla guerra. La repressione nei confronti di chi lotta per i propri diritti non è certo una novità, e naturalmente la crisi economica che accompagna da lustri il nostro capitalismo ha, di fatto, aumentato a dismisura l’atteggiamento repressivo da parte della borghesia, e tutto questo molto prima della guerra. Ma non è un caso che oggi – e probabilmente il futuro ci riserverà peggioramenti in tal senso – questa recrudescenza che la cobelligeranza nella guerra ci impone aggraverà sensibilmente la repressione nei confronti di chi manifesterà e lotterà per i propri diritti e anche contro la guerra.
Non ci sorprende, infatti, che dopo le manifestazioni all’aeroporto di Pisa e al porto di Genova contro l’invio di armi all’Ucraina, il sindacato USB, fra i protagonisti della protesta, sia stato vittima di una perquisizione nella propria sede nel Lazio da parte dei Carabinieri che avrebbe del comico se non fosse un ennesimo attacco, gravissimo, al sindacalismo combattivo (di recente attacchi analoghi, anche se non collegati alla protesta contro la guerra, sono stati condotti verso altri sindacati di base come il SiCobas) [5]. Tutto ciò restituisce la cifra di una borghesia italiana del tutto coinvolta nei piani bellici della NATO che condanna chi esprime posizioni contrarie al coinvolgimento e all’escalation del conflitto e tenta in tutti i modi di reprimere la pur flebile ma significativa solidarietà internazionalista dei lavoratori ai popoli contro la guerra imperialista. E questo, dunque, non solo con l’arma del silenzio (calato per esempio sul lodevole tentativo di coniugare lotta sindacale contro le politiche padronali e quelle belliciste del governo che il 26 marzo ha portato 25mila persone ad aderire allo sciopero organizzato dalla GKN a Firenze) ma, come abbiamo visto, anche con la repressione diretta.
I punti di vista delle forze in campo
Se, dunque, la borghesia italiana è di fatto appiattita sugli interessi di Washington è bene fare un breve sunto di quali siano gli interessi degli USA in Ucraina, di quelli russi che li hanno spinti all’invasione e di quelli del regime ucraino stesso. Il tentativo da parte dell’imperialismo americano di estendere sempre più ad est, ai confini russi, la propria influenza non è naturalmente un dato nuovo. Sin dalla disgregazione dell’URSS, voluta parimenti dalle borghesie nascenti in quei paesi, in primis quella russa stessa, il progetto di espansione della NATO non ha avuto tregua. Dopo l’annessione nell’alleanza atlantica di quasi tutti i paesi appartenenti all’ex-campo socialista, nel 2004 gli USA assestano una decisiva accelerazione al progetto riuscendo ad inglobare, oltre Romania, Bulgaria, Slovacchia e Slovenia, anche le tre repubbliche baltiche facenti parte dell’URSS.
In opposizione a quanto indicato dai vecchi lupi della guerra fredda, le diverse amministrazioni americane hanno ignorato ogni cautela e costantemente perseguito l’espansione ad est con il malcelato obiettivo di circondare la Russia pregiudicando la deterrenza strategica di quest’ultima. Oltre a questo aspetto vi era naturalmente l’obiettivo di consentire al capitalismo europeo e americano di penetrare con disinvoltura in tutti questi paesi strozzando gli appetiti del nascente capitalismo russo sempre più stretto ai suoi confini occidentali. Non a caso il pacchetto UE+NATO è stato alla base dell’espansione dell’imperialismo occidentale nell’est Europa. Tutta questa operazione, tuttavia, non sarebbe stata portata avanti con cotanta semplicità e arroganza se non vi fosse stata una forma di acquiescenza da parte della borghesia russa la quale, è bene ricordarlo, fino al 2014 aveva coltivato con la NATO relazioni tutt’altro che ostili. Mentre con una mano l’alleanza atlantica si espandeva verso est, con l’altra cercava di blandire Mosca con profferte di cooperazione.
Dal 1997, e ad onta dei tentativi occidentali di destabilizzare i paesi ex-sovietici confinanti (con le “rivoluzioni colorate” in Georgia, 2003, e Ucraina, 2004), la NATO e la Russia firmano il Founding Act of Mutual Relations, Cooperation and Security [6] e ciò si concretizza dal 2009, nonostante la guerra fra Georgia e Russia, in una più stretta cooperazione che terminerà proprio a ridosso del colpo di Stato in Ucraina nel 2014. Durante quel frangente gli USA tentarono, in parte riuscendoci, di coinvolgere la Russia nella loro guerra e occupazione dell’Afghanistan e operarono una vasta esercitazione militare congiunta nel 2011: la “Vigilant Skies 2011”[7].
Ma la strategia globale dell’imperialismo americano, in vista del più ampio conflitto con la Cina, subì, dall’amministrazione Obama, un repentino cambio di passo implicando il rinnovamento di una stagione di tensione in Europa con la Russia e suggellato da due fatti rilevanti. Il primo è stato ovviamente il tentativo, riuscito, di golpe in Ucraina contro il presidente Yanukovich (democraticamente eletto) espressione della borghesia ucraina legata agli oligarchi orientali più vicini negli interessi al capitalismo russo, e l’altra è stato l’inizio dello scambio di accuse fra USA e Russia sulla questione del divieto di dispiegamento dei missili nucleari a medio raggio, banditi (su suolo europeo) dal Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty siglato nel 1986 fra Reagan e Gorbaciov, e che vedranno gli USA ritirarsi unilateralmente nel 2018 sotto Trump. Quest’ultimo aspetto non è da sottovalutare anche per comprendere il “tempismo” dell’invasione russa in Ucraina.
Se è pur vero, infatti, che le arroganti e continue uscite del governo ucraino puntavano alla richiesta di ingresso nell’alleanza atlantica ma non avevano solide basi per potersi concretizzare, almeno formalmente, è altrettanto vero che non è necessario essere membri della NATO per ospitare basi, installazioni balistiche etc. appartenenti ad un membro dell’alleanza; se non proprio svilupparne di “proprie” [8]. Nella strategia degli USA l’Ucraina, ultra militarizzata e fanatizzata dopo otto anni di guerra nel Donbass, avrebbe dovuto costituire una fondamentale testa di ponte in chiave anti-russa che fosse o meno membro della NATO. Del resto questo è ottimamente riassunto dalle dichiarazioni di Oleksiy Arestovich, un influente consigliere personale di Zelenskij, il quale in un’interessante intervista del febbraio 2019 [9] ammette apertamente la necessità, nel volgere di un paio d’anni, da parte del regime di Kiev di una guerra su larga scala contro la Russia affinché l’Ucraina possa entrare nella NATO, contando, al momento dell’invasione, della presenza di personale NATO su suolo ucraino per coinvolgere l’alleanza atlantica direttamente nel conflitto.
Naturalmente poteva trattarsi di propaganda, e in parte probabilmente lo era, ma nei fatti la continua e incessante militarizzazione del regime in chiave anti-russa da parte degli USA è dimostrazione del fatto che l’invasione del 24 febbraio che ha fatto cadere, come si suol dire, dal pero molti personaggi dell’informazione era un’operazione di lungo respiro con un retroterra tutt’altro che improvvisato o voluto dalle follie di un “pazzo” (Putin). Ma, in ultimo, la strategia statunitense intrapresa dal 2014 nei confronti della Russia fa parte del più grande quadro complessivo del riposizionamento dell’imperialismo americano in vista dello scontro con la crescente influenza della Cina nel mondo. La puntata degli americani in Ucraina, in questo senso, era rivolta proprio alla rottura dei legami economici fra l’Unione Europea e la Russia – non per nulla oggi è sempre più pressante la retorica dell’“indipendenza” energetica – che costituirebbe una pietra angolare per un futuro ripiegamento che gli assicuri l’egemonia sul vecchio continente.
Dal punto di vista del regime di Kiev, il summenzionato Arestovich aveva disseminato, nel suo intervento “visionario”, più di un indizio sulle ragioni della situazione in cui versa l’Ucraina, ma è bene spendere due parole in più in merito. Non è questa la sede per riprendere le annose vicende storiche che hanno portato all’“indipendenza” e che registrano un’atavica spaccatura in due all’interno della società (per altro semplicemente ravvisabile con la distribuzione dei voti in praticamente tutte le tornate elettorali svoltesi nel paese dal ‘91). Ci limiteremo qui a tracciare un breve profilo delle fazioni in cui è divisa la borghesia ucraina e a “chi rispondono”, concentrandoci principalmente sulla fase storica che ha portato alla rottura, vale a dire da quella successiva al golpe di Maidan, per comprenderne il posizionamento attuale*.
La lotta per il controllo del potere in Ucraina ha visto prevalere, con conseguenti riposizionamenti, la fazione afferente alla borghesia del centro-est a detrimento di quella più apertamente orientale “liquidata” col golpe di Maidan. La litigiosità degli oligarchi ucraini, venuti fuori dal seno della burocrazia che incancreniva il PCUS (e i partiti nazionali) nelle fasi finali della sua esistenza, ha visto sempre la dicotomia fra la borghesia dell’est – esemplificata negli anni precedenti al golpe dall’ex Partito delle Regioni di Yanukovich con base a Donetsk e più orientata verso i buoni rapporti con la Russia – e quella con base a Dnepropetrovsk la quale, grazie al battagliero impegno profuso da personaggi come la Timoshenko (ma fra gli altri e “nuovi” si potrebbe anche citare Kolomoisky), ha sfruttato lo sciovinismo ucraino – a forti tinte anticomuniste e neonaziste – prevalente fra la media e piccola borghesia dell’Ucraina occidentale per condurre la lotta per il potere centrale (nazionale).
Quest’ultima fazione, che aveva già operato un colpo di mano con l’“europeista” banchiere Yushenko nel 2004 – l’antefatto del 2014 – dopo una sconfitta e una conseguente ritirata, ha prevalso, grazie all’intervento esterno degli USA, nel 2014 riuscendo ad imporsi definitivamente con il golpe di Maidan**. La ragione per la quale questa fazione “maidanista” sia così pervicace nel proseguire l’abbraccio mortale con gli interessi di Washington e che non si fa scrupoli, per questo, a fare del proprio paese un campo di battaglia, è dovuta al fatto che, se dovesse venire meno l’appoggio/controllo americano, costoro rischierebbero di perdere il potere e di venire a loro volta liquidati (in Ucraina, come dimostrano gli anni ‘90-’00, non si va troppo per il sottile nei confronti dei capitalisti perdenti). Un mero istinto di autoconservazione, per così dire, tutto sulla pelle dei civili.
Il sodalizio con le forze di estrema destra, strumento privilegiato per salvaguardare i propri interessi (non a caso l’oligarca Kolomoisky, pur di origine ebraica, è “paradossalmente” il fondatore e finanziatore del battaglione neonazista Azov), è certo pressante ma nulla a confronto con il rapporto di sudditanza che la fazione maidanista ha intessuto con gli USA. Ecco perché hanno bisogno della guerra, parafrasando Arestovich, per potersi mettere definitivamente in sicurezza e governare quasi da compradores per conto dell’imperialismo euro-atlantico.
Da parte sua la Russia ha due necessità impellenti, una di ordine strategico-militare, cioè quella di evitare il costituirsi di un enorme bastione americano ferocemente anti-russo ai suoi confini – depurato dalla retorica il discorso “inaugurale” di Putin del conflitto, rispetto a questo, è stato abbastanza chiaro quando definisce i progetti USA per l’Ucraina quelli di voler creare un“Anti-Russia” – e l’altro di più classica tenuta del capitalismo russo che, con la “riconquista” dell’influenza nell’est del paese otterrebbe il controllo delle risorse del Donbass, oltre che mettere in sicurezza l’approvvigionamento e il collegamento terrestre con la Crimea.
Per quanto la liquidazione fisica delle frange neonaziste e anti-russe – che non sono tuttavia un problema di poco conto in Ucraina come i media occidentali vorrebbero mostrare – sia incidentalmente un bene non è chiaramente la “denazificazione” o tantomeno la difesa dei russofoni del Donbass la ragione dell’intervento russo. Ma questo, per chi ha occhi per vedere e orecchie per intendere, risulta abbastanza chiaro, basti pensare che sono stati proprio i russi a frenare più volte la pur eroica resistenza iniziale delle milizie delle repubbliche popolari – ad esempio dopo la vittoria a Debaltsevo o durante l’offensiva verso Mariupol (2015) quando le milizie avevano inflitto dure sconfitte alle truppe di Kiev [10] – e portarli al tavolo dei vari Minsk I e II (questo proprio del febbraio 2015 dopo l’offensiva) mai veramente rispettati dagli ucraini. E sempre i russi si sono opposti alle misure di nazionalizzazione, almeno fino al proclamato embargo del Donbass voluto da Kiev nel 2017 [11], delle proprietà degli oligarchi ucraini come per esempio le centinaia di aziende dell’uomo più ricco d’Ucraina Rinat Akhmetov (che pur fra mille contraddizioni ha continuato a proclamarsi fedele a Kiev pur cercando abboccamenti con Mosca per salvaguardare le sue proprietà in Donbass). Non bisognava dare un “cattivo” esempio.
La guerra e la questione russo-ucraina vista dagli “altri”
Dopo questo inciso sugli “interessi” delle parti coinvolte più o meno direttamente nel conflitto fra Russia e Ucraina è bene ricordare che questa guerra, che per la stampa occidentale è, come detto sopra, prevalentemente racconto emozionale, propaganda e poco altro, conserva in sé il rischio di un conflitto più ampio, di portata non più regionale ma mondiale. Se gli USA, per quanto non facciano mistero di considerare la guerra un’opzione (basti pensare a tutti i falchi atlantisti con l’elmetto, anche nostrani, o i consigli di Luttwak sui benefici per lo spirito dei nostri giovani nella partecipazione diretta alla guerra) non stanno pensando seriamente di mettere i famosi boots on the ground, il livello del conflitto in sede internazionale ha raggiunto livelli parossistici di non ritorno.
La stampa occidentale ci mostra una Russia isolata, reietta, quasi sull’orlo di una crisi di nervi, incompresa nelle follie del suo imperatore, col solo appoggio, talvolta definito “ambiguo”, della Cina e di qualche sparuta nazione. Se è vero che ultimamente gli USA sono riusciti, grazie all’enorme influenza della macchina propagandistica, ad incassare delle condanne generiche e finanche la sospensione della Russia dal “Consiglio dei diritti umani” dell’ONU, è altrettanto vero che la cosiddetta comunità internazionale (il modo con il quale gli USA in realtà denominano il proprio orticello occidentale) non sembra così unanime nel supportare l’isteria anti-russa degli statunitensi.
Partendo proprio dall’analisi del risultato di quest’ultima votazione, la terza dall’inizio del conflitto, è facile notare che incassare la vittoria per la diplomazia USA non sia stata una passeggiata poiché meno della metà dei paesi rappresentati alle Nazioni Unite ha espresso voto favorevole alla sospensione della Russia dal Consiglio mentre il resto del mondo ha votato contro o si è astenuto, in chiaro dissenso con la campagna russofoba portata avanti dall’Occidente. La risoluzione è passata poiché il meccanismo prevede la maggioranza qualificata dei due terzi dei votanti presenti e non prende in conto le astensioni. Meccanismo pesantemente criticato da Cuba nel corso delle dichiarazioni di voto:
Il ricorso alla clausola di sospensione dei membri del Consiglio non favorirà in alcun modo la ricerca di una soluzione pacifica, negoziata e duratura del conflitto […] Tale clausola può essere attivata con il sostegno di soli due terzi dei presenti e votanti; pertanto, le astensioni non contano e non è nemmeno stabilito un numero minimo di voti per l’approvazione della sospensione. […] In tal modo, i diritti di un membro del Consiglio possono essere sospesi per volontà di un numero ancora minore di Stati rispetto a quelli che hanno deciso di eleggerlo e di concedergli tali diritti. La Federazione Russa, eletta membro del Consiglio per i diritti umani nel 2020 con 158 voti, potrebbe essere sospesa oggi con un numero inferiore. [12]
E infatti, la Russia è stata sospesa con una maggioranza di appena 93 voti. E, come scrive Le Monde, “autorevole” quotidiano francese non certo imputabile di benevolenza nei confronti della Russia:
un voto che ha raccolto 93 voti a favore e riflette uno sgretolamento dell’unità internazionale contro Mosca. 24 paesi hanno votato contro questa sospensione […] avviata dagli Stati Uniti. E 58 paesi si sono astenuti. Ma le astensioni, scelta denunciata da Kiev, non sono state prese in considerazione nella maggioranza dei due terzi richiesta tra gli unici voti favorevoli e contrari[13]
La problematicità di questo equilibrio è dunque ben chiaro a chiunque voglia leggere le dinamiche internazionali al di là della propaganda infantile proposta dai media borghesi occidentali. Tanto più che tra chi non ha votato a favore ci sono veri e propri giganti della scena internazionale quali Cina, Iran, Algeria, Etiopia, Kazakistan (che hanno votato contro) o India, Pakistan, Angola, Brasile, Egitto, Indonesia, Messico, Nigeria, Qatar, Arabia Saudita, Senegal, Sudafrica, Emirati Arabi Uniti (che si sono astenuti).
RISOLUZIONE DEL 7 APRILE
E anche quando Le Monde evoca la fantomatica “unità internazionale contro Mosca” che si sarebbe manifestata nel corso delle votazioni del prime risoluzioni ONU, siamo più nell’ordine della propaganda che della realtà. Perché se è vero che nelle due precedenti risoluzioni si è palesata una larga maggioranza critica nei confronti dell’invasione, anche qui un’analisi più attenta delle forze in campo ci mostra un equilibrio tra la posizione di assoluta condanna (espressa dall’Occidente) e di neutralità e comprensione delle preoccupazioni di Mosca espressa da Africa e Asia, quasi in blocco, e dall’America Latina (in maniera meno palese).
La prima risoluzione adottata dall’Assemblea Generale il 2 Marzo, una settimana dopo l’inizio dell’invasione, infatti, “deplora con la massima fermezza l’aggressione commessa dalla Federazione Russa contro l’Ucraina in violazione del paragrafo 4 dell’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite”. La prima cosa da notare è l’uso del termine “deplora”, che è il frutto della mediazione all’interno della comunità internazionale (intesa come 193 stati non come i 40 stati occidentali) atta a nascondere la mancanza di consenso intorno a una condanna esplicita. In sintesi, ci è voluta una settimana di laboriosi sforzi diplomatici per giungere a un voto che avesse possibilità di ottenere la maggioranza degli stati membri e per farlo si è dovuto soprattutto evitare la parola “condanna” [14]. Nonostante queste precauzioni, che comunque hanno raggiunto lo scopo prefissato di mettere in minoranza la Russia, il testo è stato adottato con 141 voti favorevoli, ma 5 contrari (Russia, Bielorussia, Eritrea, Corea del Nord e Siria) e ben 35 astensioni
RISOLUZIONE DEL 2 MARZO
Dei 35 paesi astenuti, 17 sono in Africa; stati importanti come Algeria, Senegal, Sudafrica, Mali, Angola. A questi astensionisti occorre aggiungere un altro gruppo, ancor più prudente, di quelli che non hanno neanche partecipato al voto, paesi anch’essi di primo piano sul continente come l’Etiopia (che abbiamo visto astenersi in seguito nella risoluzione del 7 aprile analizzata sopra) e il Marocco. L’Africa è dunque ben lontana dal seguire ciecamente i desiderata delle vecchie potenze coloniali, se persino un paese come il Senegal ha espresso una posizione critica rispetto alla crociata occidentale; questo ha significativamente allertato le cancellerie europee, in particolare la Francia. Per la diplomazia francese, abituata a trattare l’Africa francofona come il giardino di casa, questo indirizzo indipendente è considerato “problematico”. [15]
L’Asia è apparsa invece ancor più compatta nel fronte dell’astensione, che politicamente è una prosecuzione della posizione neutrale – che più che acriticamente filo russa è anti NATO e anti egemonica, e in definitiva propensa a prendere in conto tutti i parametri e gli aspetti del problema, quindi anche e soprattutto le ragioni di Mosca – espressa dalla Cina fin dal primo giorno della crisi. Dal Pakistan fino alla Cina, passando per l’Iran, l’India, il Bangladesh, la Mongolia, il Vietnam, il Laos (con l’aggiunta dell’Indonesia e della Thailandia nella risoluzione del 7 aprile) i giganti asiatici formano di fatto un blocco dove le ragioni di Mosca trovano quantomeno ascolto. Questo blocco ‘giallo-rosso”, come da infografica seguente, rappresenta come più della metà della popolazione mondiale: difficile dunque da questi dati quantitativi e qualitativi dedurre un isolamento russo.
Anche perché questo schieramento si è riprodotto e parzialmente allargato tre settimane dopo nel corso della votazione della seconda risoluzione, quella del 24 marzo, quando il fronte “verde” perde un voto mentre quello giallo ne guadagna tre. Il testo, intitolato Conseguenze umanitarie dell’aggressione contro l’Ucraina e presentato dall’Ucraina, è stato adottato con 140 voti favorevoli, 5 contrari e 38 astensioni.
RISOLUZIONE DEL 24 MARZO
Ma soprattutto, andando al cuore della questione, tale “isolamento” asserito come una verità assoluta alle opinioni pubbliche europee, sembra non esistere se guardiamo alla questione delle sanzioni, vero e proprio orgoglio di guerra dell’Occidente. Qui i numeri si ribaltano chiaramente. Basti considerare che più di 140 Stati membri delle Nazioni Unite non hanno sanzionato la Russia e non hanno intenzione di farlo. Questa è la parte più grande della comunità internazionale in contrasto con il piccolo gruppo di alleati/vassalli degli USA da cui provengono le sanzioni. Giganti filo occidentali come Messico e Brasile, che pure hanno votato favorevolmente le prime due risoluzioni ONU, hanno rifiutato categoricamente di imbarcarsi in una guerra commerciale contro la Russia e mantengono normali relazioni economiche, diplomatiche e politiche con Mosca. La Turchia, paese NATO, ha ugualmente rifiutato di imporre la minima sanzione alla Russia, prendendo in questo completamente le distanze dagli alleati (e proponendosi come sappiamo come mediatore tra le parti). Persino in Europa, un paese come la Serbia continua a rifiutare categoricamente le sanzioni e l’Ungheria, membro UE e NATO, ha aperto alla possibilità di pagare il gas in rubli come richiesto dal Cremlino.
In Medio Oriente, la Lega Araba ha mantenuto una posizione neutrale volando sia a Mosca che a Kiev per discutere con le parti, ma a sorprendere gli osservatori sono state soprattutto l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti – storici alleati USA – che non hanno risposto alle richieste di Washington di condannare la Russia, né di aumentare la produzione di idrocarburi per far abbassare i prezzi del petrolio, né di unirsi alle sanzioni [16]. Da un punto di vista economico e diplomatico, la maggioranza dei paesi e della popolazione mondiale continua ad avere normali relazioni con la Russia e non ha intenzione di essere trascinata in questa crociata occidentale e così pregiudicare potenziali fruttuose possibilità di cooperazione con la Russia.
In conseguenza di questa profonda spaccatura planetaria tra Occidente e resto del mondo, la pressione e le minacce USA sono feroci: a farne le spese il Pakistan apertamente minacciato di regime change (in corso) a causa della sua politica indipendente e la Serbia minacciata di sanzioni se non avesse votato la risoluzione del 7 Aprile. E la minaccia di sanzioni si estende a chiunque sia in odore di voler “aiutare” la Russia a sfuggire agli effetti delle sanzioni, cioè a chiunque intenda semplicemente e sovranamente commerciare con la Russia. Persino un colosso come l’India, da sempre in buoni rapporti con Washington, si è trovata a fare i conti con il bullismo del regime USA, minacciata di ritorsioni in quanto “colpevole” di continuare a comprare petrolio dalla Russia, per di più pagandolo in rupie [17]. È evidente che da questo punto di vista molte nazioni aspirino a smarcarsi dall’ordine internazionale al momento schiacciato dai diktat planetari di Washington che pesano su gran parte dell’umanità (visto lo strapotere del suo esercito e del dollaro), ma che sono percepiti sempre più come una minaccia. Una minaccia molto più concreta, pervasiva e reale di qualunque “minaccia russa”.
[3] Le conseguenze per l’economia italiana in caso di un embargo al gas russo – Linkiesta.it
[4] L’aumento delle spese militari e la mancanza di strategia– MicroMega
[5] i Guerra Ucraina: “Dall’aeroporto di Pisa armi ‘mascherate’ da aiuti umanitari”
ii Ucraina: portuali di Genova sciopero e presidio contro le armi – la Repubblica
iii Trovata pistola in sede Usb a Roma, sindacato “è macchinazione” – Lazio – ANSA.it
[8] https://www.fpri.org/article/2022/01/moscows-compellence-strategy/
[9] Predicted Russian – Ukrainian war in 2019 – Alexey Arestovich
* Riservandoci di approfondire l’interessante questione in successive uscite
** NB. sia chiaro che questa è una semplificazione del contraddittorio processo di sviluppo politico e degli indirizzi della borghesia ucraina che vede personaggi di diversa provenienza cercare di sfruttare a proprio vantaggio la politica “centrale”, o per meglio dire nazionale, del paese. Pertanto la divisione schematica in centro-est (Dnepropetrovsk) ed est (Donetsk) è puramente indicativa in quanto al saccheggio delle risorse nazionali e all’indirizzo “filo-occidentale” della politica ucraina partecipano anche personaggi provenienti dall’est. E’ bene, ad ogni modo, rilevare un fatto che ci spinge a questo schematismo: la quasi totalità degli oligarchi ucraini è proprio proveniente da quelle due città, o comunque dall’Ucraina ad est del Dnepr – per ovvie ragioni dacché le ricchezze minerarie e industriali sono ivi concentrate; sono solo un paio gli oligarchi che hanno base ad ovest di Kiev, uno di questi è proprio l’ex-Presidente Poroshenko il quale tuttavia ha iniziato la propria carriera politica nel partito “dell’Est” di Yanukovich per poi saltare in campo opposto. Si specifica questo proprio a rimarcare il fatto della relativa permeabilità degli “schieramenti” così schematizzati per brevità.
[10] Ucraina, Avanzata separatisti filorussi: 193 kmq in 5 mesi – Askanews
[11] The Donbas Blockade:
[12] https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=515753163263222&id=100044856290954
[14] L’impossible «condamnation» de la Russie à l’ONU – Libération
[16] L’Arabia Saudita e gli Emirati rifiutano la telefonata di Biden
[17]
EXCLUSIVE US warns India, others against sharp rise in Russian oil imports -official | Reuters