Quella del governo Draghi è stata un’estate all’insegna di un’attenta preparazione di ciò che la propaganda chiama, a reti unificate, “ripresa economica”. Concretamente, vuol dire che il governo si è impegnato a organizzare al meglio un autunno di profitti per le imprese e per gli sfruttatori, sulla pelle dei lavoratori. A dare il là a questo movimento è stato innanzitutto, a partire dalla fine del mese di giugno, il via libera del governo allo sblocco dei licenziamenti, accompagnato al parallelo cannoneggiamento contro il Reddito di cittadinanza colpevole di dissuadere dall’accettare un posto “scansafatiche” che preferirebbero “stare sul divano” piuttosto che farsi sfruttare per un salario da fame da ristoratori e operatori turistici.
Benché i dati INPS smentiscono clamorosamente il piagnisteo imprenditoriale – sono stati attivati infatti più rapporti di lavoro stagionali quest’anno che nel 2017 e 2018, cioè prima dell’introduzione del RdC – i latrati dei suoi detrattori non si sono placati, dovuti in realtà al timore che l’esistenza del dispositivo li possa obbligare a offrire stipendi più alti, cosa inconcepibile per un padronato straccione come quello italiano.
Infine, la ciliegina sulla torta: a inizio luglio, subito dopo lo sblocco dei licenziamenti, il PD e la Lega hanno approvato, d’amore e d’accordo, un emendamento che cancella il ‘Decreto Dignità’, come Confindustria chiedeva da tempo. Tale Decreto, istituito nel 2018, aveva ridotto da 36 a 24 i mesi di durata massima dei contratti a tempo determinato e, salvo i primi 12 mesi liberi, introdotto precise causali (per esigenze temporanee e oggettive; esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria) che le aziende dovevano inserire per motivare il ricorso a tali contratti. In caso di mancata verifica di simili condizioni, scattava la conversione del rapporto a termine in contratto a tempo indeterminato.
Ora, grazie all’emendamento della maggioranza, le causali spariscono sostituite da una nuova norma che prevede si possano attivare contratti a termine anche per le «specifiche esigenze previste dai contratti collettivi». Sparisce così l’obbligo di attivare contratti a tempo indeterminato, si consente in definitiva, di cancellare ogni limite al rinnovo selvaggio dei contratti a termine. Licenziamenti e precariato permanente sono dunque serviti su un piatto d’argento ai capitalisti d’Italia perché possano usare tali strumenti per “la ripresa” – cioè per meglio ricattare le masse di salariati e disoccupati in cerca di lavoro – secondo l’idea per cui qualsiasi vincolo legislativo vada rimosso per favorire il laissez-faire del mercato, cioè degli interessi padronali.
Si tratta degli stessi capitalisti che durante la pandemia hanno frodato la collettività senza ritegno, percependo i fondi della cassa integrazione pur non avendo registrato il calo di fatturato che ne avrebbe giustificato l’utilizzo. Nei settori della manifattura e dei servizi sono migliaia le aziende che si sono rese colpevoli di questa appropriazione indebita di risorse senza per questo essere state poi punite o costrette a restituire i fondi pubblici intascati una volta scoperte. Si tratta degli stessi capitalisti che hanno intascato sussidi a fondo perduto per almeno 120 miliardi di euro durante questo anno e mezzo di pandemia, e nonostante tutto hanno trovato il modo di licenziare e delocalizzare mentre investivano gli aiuti di Stato in beni immobili e nella finanza al fine unico di rimpinguare i propri patrimoni.
Si tratta della classe di capitalisti che ha visto esplodere i profitti e accumulare enormi ricchezze nel corso della crisi pandemica che gettava nella miseria milioni di persone. I dati sono imbarazzanti. Al livello globale già sei mesi dopo lo scoppio della pandemia Oxfam segnalava come i più grandi gruppi avessero già realizzato “109 miliardi di extra-profitti realizzati da 32 multinazionali nel 2020, dei quali secondo le stime l’88% andrà a remunerare gli azionisti” invece di essere investiti “in posti di lavoro di qualità, attività di ricerca e sviluppo, tecnologie amiche del clima, riconversione dei processi produttivi, nonché nel pagamento di una equa quota di imposte”. Una tendenza che si conferma anche nel 2021, le grandi aziende hanno ripreso a versare lauti dividendi comprimendo i salari e contribuendo, dunque, in maniera decisiva all’esplosione delle disuguaglianze.
Corazzate dal robusto scudo ideologico del pensiero liberale propagandato dai media, assecondate da un governo che è loro diretta espressione e forti dei soldi rubati e capitali accumulati nell’ultimo anno, le imprese in Italia possono lanciarsi così verso una felice stagione di sovraprofitti. Si spiega dunque in questo modo la standing ovation a Draghi all’ultima riunione di Confindustria.
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E i lavoratori che fanno? Si prepara un autunno caldo? A fronte di questo attacco padronale l’Italia del lavoro salariato sembra configurarsi come un arcipelago di vertenze, che esistono e sono diffuse, ma sconnesse. Tra lo sblocco dei licenziamenti e le pratiche delle delocalizzazioni, a breve termine i rischi per i lavoratori sono notevoli. Secondo l’Unione Sindacale di Base (USB):
Alitalia, GKN, ex Ilva, Whirpool, Stellantis, Sevel, Embraco, Blutec, Giannetti Ruote, Elica, ABB, JSW Steel, Jabil, Flextronics, Vitesco, Slim Fusina Rolling, Euralluminia, Ideal Standard, Italtel, Dema, Sicamb, Indelfab, Riese e Sider Alloys… Sono crisi aziendali e di settore che oggi mettono a rischio tra gli 80 ed i 100mila posti di lavoro.
Per non parlare del settore della logistica, che da anni fa parlare di sé per le lotte, principalmente condotta dai SI Cobas, che vanno avanti sottotraccia e con fiammate particolarmente violente, in particolare per quanto riguarda la repressione e la spregiudicatezza padronale a fronte della determinazione dei lavoratori sindacalizzati del settore.
In questo arcipelago di lotte, almeno quattro mobilitazioni sembrano aver assunto un ruolo centrale: Alitalia, Whirlpool, Texprint e GKN. In particolare quest’ultima ha saputo ritagliarsi, grazie alla caparbia e organizzata resistenza dei lavoratori e del comitato di fabbrica, una visibilità nazionale arrivando a suscitare solidarietà trasversale e ispirare cortei unitari molto partecipati. Tuttavia una singola vertenza (o alcune significative tra esse) non possono bastare a risollevare le sorti degli sfruttati, e non possono avere il ruolo di centralizzazione su scala nazionale di un movimento dei lavoratori all’altezza della sfida. La realtà è che queste vertenze mancano di autentica rappresentanza politica e sindacale.
Non solo i sindacati confederali si rifiutano infatti di avallare rivendicazioni di base come il salario minimo, rivendicato invece da tutti i sindacati di base e da tutti i lavoratori combattivi, ma in particolare la CGIL, completamente collaterale al PD e al Governo Draghi, si rifiuta di unificare le lotte (come fa ad esempio la sua organizzazione omologa, la CGT, in Francia). Vista la preponderanza in termini quantitativi di tale sindacato, e il suo ruolo centrale nel panorama sociale italiano, siamo di fronte a un problema reale che non può essere eluso nonostante l’attivismo e gli sforzi delle opposizioni sindacali e dei sindacati di base cerchino di palliare a questo sabotaggio in grande stile organizzato da tempo dal primo sindacato italiano contro le istanze dei lavoratori.
A questo proposito, le parole di uno dei rappresentanti del collettivo di fabbrica GKN sono indicative:
Le delusioni arrivano tutte ora: dopo una manifestazione come quella del 18 settembre, con una partecipazione tra le 25mila e le 40mila persone a seconda delle stime, dove tutti sono usciti camminando a due metri da terra per la contentezza, noi continuiamo a registrare un atteggiamento di ‘sufficienza’ da parte dei vertici sindacali.
E ancora:
Guardiamo in faccia la realtà. […] dopo una fase iniziale, questa nostra lotta non è stata più né seguita né accompagnata dalla Cgil. […] Forse più di uno tra i nostri dirigenti aveva pensato, sperato o calcolato che avremmo ceduto firmando la cessazione d’attività. E forse più di uno pensa che non ci sia altro da fare che cedere.
C’è un unico filo che ci collega alle piazze per la giustizia climatica, alle mobilitazioni studentesche, alle altre vertenze come Alitalia, Texprint, Gianetti, Whirlpool, ecc, ma anche alla lotta contro il lavoro precario, per un salario minimo e per l’abbassamento dell’età pensionabile. Se segui questo filo e lo tiri, ci porta tutti nella stessa piazza. E il mezzo per raggiungere questa piazza si chiama sciopero generale. Ma non ci sarà alcuno sciopero generale di massa se non saranno le lavoratrici e i lavoratori del paese a chiederlo, a viverlo, a prepararlo
In questo senso, lo sciopero indetto dal sindacalismo di base dell’11 ottobre può e deve essere un passaggio per un processo di necessaria unità, come parte di un percorso verso uno sciopero generale e generalizzato nel paese.
2) https://infosannio.com/2021/07/09/pd-e-destra-smantellano-il-dl-dignita/
3) https://ilmanifesto.it/il-30-delle-imprese-ha-usato-la-cassa-integrazione-senza-un-calo-dei-ricavi/
4) https://www.huffingtonpost.it/entry/i-furbetti-della-cassa-integrazione_it_5ee07c1bc5b6a1f45d268f95 ; https://www.huffingtonpost.it/entry/le-aziende-furbette-della-cassa-integrazione-234mila-hanno-fatto-profitti-ai-danni-dello-stato_it_5f2060cac5b638cfec4adcdb
5) https://ilmanifesto.it/il-sussidistan-delle-imprese-fa-crescere-solo-la-disoccupazione/ ; https://www.fanpage.it/politica/lo-stato-si-e-indebitato-per-i-sussidi-alle-imprese-non-per-il-reddito-di-cittadinanza/
6) https://www.oxfamitalia.org/covid-19-nuovi-poveri-profitti-aziende-aumento/
9) http://sicobas.org/2020/12/28/contributo-le-lotte-nella-logistica-tra-pandemia-e-amazonizzazione/
11) https://www.facebook.com/100476036959526/posts/1572082159798899/