La scorsa settimana Cuba è stata investita dall’ennesimo tentativo di destabilizzazione volto a condurre ad un cambio di governo e alla fine di tutte le conquiste che la rivoluzione cubana del 1959 ha portato agli abitanti dell’isola del Mar dei Caraibi. Il tentativo di controrivoluzione orchestrato dagli incalliti reazionari statunitensi si è appoggiato materialmente su alcune difficoltà che il popolo cubano sta sperimentando a causa dell’emergenza Covid e che si somma alla ragione principale di tutte le sofferenze patite nei decenni da Cuba: il criminale embargo che gli Stati Uniti impongono all’isola. Una misura terroristica permanente che dura dal 1962 e che gli apologeti della “difesa dei diritti umani”, così come la quasi totalità dei grandi organi di informazione legati a doppio filo ai desiderata della politica guerrafondaia degli USA, volentieri preferiscono nascondere sotto il tappeto o minimizzare quando narrano delle vicende cubane.
L’embargo, questo elefante nella stanza, è stato nuovamente il grande assente dalla narrazione mainstream sui recenti avvenimenti cubani con il malcelato intento di indurre l’opinione pubblica mondiale a ricercare la causa della crisi e delle proteste popolari nelle “inefficienze strutturali del regime comunista”. A ben vedere, come sempre, a questo tipo di narrazione manca la benché minima base logica e fattuale. Non si cita, ad esempio, lo stato in cui versava Cuba prima della rivoluzione, addirittura si afferma che proprio dalla rivoluzione, cioè da 60 anni, a Cuba manchi la libertà: riabilitando, così, implicitamente il sistema mafioso-coloniale del dittatore filo-USA Fulgencio Batista (come fatto ad esempio in un recente articolo uscito sull’Huffington Post). Mancano perfino i confronti con le realtà analoghe circostanti rimaste sotto il giogo di Washington dove fame, sfruttamento, crimine e violenza sono purtroppo tristi realtà con cui le popolazioni di Haiti, Colombia etc convivono da decenni – tutte realtà che a Cuba non esistono – mentre invece si continua a paragonare l’isola alla Svizzera o agli stessi USA ad onta, ripetiamolo, dell’impossibilità cubana di potersi sviluppare liberamente proprio grazie all’infame politica di soffocamento imposta da Washington.
Proprio la parola libertà, questa volta sotto forma di slogan astratto come da tradizione nei consessi dell’imperialismo euro-atlantico, è stata usata in questi giorni per raccontare ciò che sta avvenendo a Cuba dalla stampa occidentale. “Migliaia e migliaia di manifestanti anti-governativi marciano per ottenere la libertà”… tradotto: la democrazia liberale, il capitalismo e tutto ciò che fa parte del pacchetto ormai arcinoto. Tuttavia le cose non stanno esattamente così, e prima di addentrarci in ulteriori analisi è bene riassumere i fatti per come essi si sono svolti realmente.
Cause e sviluppi della protesta
A causa dell’embargo, nelle ultime settimane, la sanità cubana ha scontato una maggior fatica a fronteggiare l’epidemia di Covid che sta attanagliando l’isola come il resto del mondo. Un sistema che, nonostante la morsa, finora ha dato prova di un’ottima tenuta e di un’efficacia sorprendente (le vaccinazioni procedono rapidamente, considerando l’inizio della crisi nell’isola e le difficoltà dell’embargo) se si considera che a Cuba, che ha gli stessi abitanti del Belgio e della Lombardia, la mortalità causata dalla pandemia è stata incomparabilmente più bassa rispetto ad altre più ricche nazioni. Inoltre, anche in raffronto con i vicini americani, la risposta cubana alla crisi pandemica è stata eccezionale se si considera che l’isola caraibica è riuscita a produrre, grazie alla sua eccellenza pubblica in campo biomedico, ben cinque vaccini anti-covid, di cui due in fase di somministrazione e uno, l’Abdala, con un’efficacia del 92%.
Le difficoltà della crisi pandemica sono aggravate a causa dell’embargo, e dal suo inasprimento voluto da Trump l’anno scorso, perciò oltre alla difficoltà di approvvigionamento di materiale sanitario si è aggiunta anche la crisi del settore turistico che forniva a Cuba un’importante fonte di entrate di valuta estera, essenziale per ossigenare un’economia stretta al collo dagli artigli statunitensi. Il fatto che l’aggravamento delle condizioni possa condurre ad un aumento di malcontento in parte della coriacea popolazione cubana non sarebbe un fatto incomprensibile considerata anche la congiuntura di questa vera e propria tempesta perfetta. Tuttavia le manifestazioni di questo malcontento si sarebbero tenute, come è accaduto in altre circostanze e come accade in altri paesi, entro l’alveo della democrazia che la Costituzione cubana garantisce al proprio popolo. E così sarebbe stato se a strumentalizzare, organizzare e poi dirigere le proteste non ci fosse stata una campagna mediatica ad amplissimo raggio portata avanti dagli USA che non ha fatto altro che tentare, con risultati invero assai modesti, di aizzare la popolazione contro il governo. Tuttavia questa operazione mediatica è riuscita nell’intento di aumentare la tensione nei confronti del governo cubano convogliando l’interesse dell’opinione pubblica mondiale sulle presunte violazioni dei diritti umani praticate a Cuba, in un attacco che ha ragioni più profonde e tenteremo di sviscerare più avanti.
Niente di nuovo sotto il sole, si sarebbe portati a pensare, se non fosse che le modalità di quest’attacco, tenute ben nascoste dal fuoco della propaganda mediatica a rimorchio della Casa Bianca, non raggiungevano tali livelli di provocazione da molto tempo. L’11 luglio scorso a causa di un blackout in una zona periferica della città San Antonio de los Baños, qualche centinaio di manifestanti è sceso per le strade attuando una dura protesta contro le forze dell’ordine, da lì, grazie ai social e alla propaganda a tamburo battente che rimbalzava da Miami, la protesta si è allargata a qualche migliaio di manifestanti in tutta l’isola coinvolgendo altre città, fra cui anche la capitale stessa.
La reazione del governo è stata quella di denunciare immediatamente le operazioni di strumentalizzazione dei provocatori dietro ai quali si muovono gli USA e di chiamare in piazza invece i sostenitori della rivoluzione che hanno risposto in pieno all’appello del presidente Diaz-Canel sopravanzando nettamente nei numeri la mobilitazione di protesta che ormai aveva sempre più svelato la sua natura reazionaria con tanto di slogan “libertà, libertà”, bandiere statunitensi e cartelli che invocavano alla “fine del comunismo”. Se nell’isola la crisi d’ordine pubblico si protraeva tutto sommato senza grossi danni e con l’arresto di pochi fra i più violenti (niente a che vedere con le repressioni a cui ci hanno abituato gli USA, Francia etc per non parlare dei regimi latinoamericani amici di Washington) al di là delle coste cubane si riaccendeva la miccia delle manifestazioni controrivoluzionarie con, manco a dirlo, Miami in testa.
Un modus operandi ben collaudato
La miccia della controrivoluzione si riaccendeva perchè nella folta comunità di esuli cubani residenti negli USA (quasi un milione di persone), prevalentemente in Florida essa non si è mai spenta. A Miami, per sfruttare e dirigere le manifestazioni a Cuba, si sono svolte imponenti dimostrazioni di esuli che spesso la stampa internazionale ha proditoriamente spacciato per proteste in corso sull’isola, arrivando addirittura a manipolare le immagini di manifestazioni e manifestanti filo-governativi spacciate per proteste e contestatori. Rilanciando sui social network l’hastag divenuto virale “SOSCuba”, la macchina della propaganda imperialista si è messa in moto in modalità simili a quanto occorso recentemente in diversi paesi latinoamericani: dal tentativo di rovesciamento del governo venezuelano a quello riuscito contro il Morales in Bolivia, per non parlare dei tentativi di liquidare e marginalizzare i movimenti progressisti in Equador e Perù durante le campagne elettorali di questi paesi.
La creazione di profili falsi, il sorgere di account di sedicenti esperti, di dissidenti, di congiunti scappati all’estero dai suddetti paesi, è stata molto bene analizzata dal giornalista spagnolo Juan Macias Tovar, che, dati alla mano, ha dimostrato come il flusso di post che citavano le parole d’ordine della protesta cubana su Twitter è stato massiccio da parte di account falsi, creati all’uopo, oppure riciclati da altre operazioni analoghe dove “cugini” venezuelani o boliviani diventavano improvvisamente cubani e narravano delle “terribili repressioni condotte dal regime comunista”
¿Qué está pasando en Cuba?
Analicé los más de dos millones de tuits usando el HT #SOSCuba que comenzó pidiendo ayuda humanitaria con la participación de artistas y miles de cuentas recién creadas y bots por las muertes por COVID y terminaron en movilizaciones en las calles. pic.twitter.com/XDq2nki3Ne— Julián Macías Tovar (@JulianMaciasT) July 12, 2021
Le fakenews e le provocazioni lanciate dai social, si sono unite ad un altro tipo di campagna propagandistica da parte dell’imperialismo il quale, affidandosi ad artisti prezzolati, ha tentato di sfruttare al massimo la diffusione dei social network fra il popolo cubano al fine di portare avanti le proprie politiche controrivoluzionarie e in ottica di favorire sempre più le mobilitazioni reazionarie. A questo scopo di recente un gruppo di musicisti e rapper cubani, dapprima ignorati o banditi dagli USA dacché nei loro tour americani non dimostravano abbastanza sentimento anti-governativo, si sono resi complici di un’operazione di marketing e propaganda politica lanciando la canzone “Patria Y Vida”: ennesimo tentativo di lanciare un tormentone pop da parte dell’industria culturale imperialista. Diventata immediatamente inno dei controrivoluzionari a Miami, la canzone, scimmiottando lo storico slogan patriottico cubano “Patria o Muerte”, forniva ai suddetti “artisti” il lasciapassare per intestarsi agli occhi dei loro nuovi protettori d’oltremare come dissidenti politici e fustigatori delle “malefatte del regime”, come ispiratori, soprattutto per le nuove generazioni, di valori politici e sociali in netto contrasto con quelli che da decenni animano il consenso verso la rivoluzione e il suo governo.
Non è un caso che uno di essi, Yotuel Romero, sia diventato portavoce delle istanze più retrive del conservatorismo americano, facendo passerelle politiche con esponenti della destra repubblicana e facendo dei tour promozionali al parlamento spagnolo ed europeo. Qui sotto una ricostruzione (con sottotitoli in italiano) del vergognoso teatrino messo in atto da questi saltimbanco dell’imperialismo:
Un’operazione per la quale, secondo quanto riportano gli ultimi dati forniti dal governo statunitense, gli USA attraverso la propria agenzia governativa per il sovvertimento internazionale (USAID, altrimenti detta Agenzia per lo sviluppo internazionale), ha stanziato nell’ultimo anno 20 milioni di dollari per finanziare “artisti” e altri soggetti impegnati nel campo ”educativo” e quasi 10 milioni per il rinnovamento completo dell’apparato mediatico propagandistico puntato contro Cuba. Decine di milioni di dollari per finanziare personaggi, come uno dei protagonisti della suddetta canzone “Patria Y Vida”, che non ha avuto remore a lanciare appelli affinché gli Stati Uniti soffochino ancora di più l’economia cubana e intervengano militarmente per rovesciare il governo. Del medesimo avviso sono gli “intellettuali” e “artisti” cubani della Florida che stanno dietro questo enorme progetto di agitprop imperialista ai danni di Cuba.
E mentre sulla stampa internazionale le anime belle si stracciano le vesti per la presunta mancanza di libertà di espressione nell’isola questi soggetti si fanno interpreti delle istanze più reazionarie, per esempio lo youtuber e attore cubano-statunitense Alexander Otaola, appoggiato pienamente dal guerrafondaio sindaco di Miami, Suarez, l’anno scorso ha stilato una vera e propria lista di proscrizione di artisti cubani non allineati all’aggressione imperialista – lista poi consegnata a Trump che si è detto pronto ad agire – impedendo loro qualsiasi accesso o tour artistico negli Stati Uniti (curiosamente in questa lista vi erano presenti anche due dei cantanti della suddetta canzone, accolti a braccia aperte una volta rinnegata la patria e schieratisi apertamente con l’imperialismo).
Le motivazioni del rinnovato interventismo statunitense contro la rivoluzione cubana
Se è vero che Cuba è da sempre nel mirino delle amministrazioni statunitensi per aver dimostrato che è possibile realizzare la rivoluzione socialista a due passi dal tempio del capitalismo e usare le risorse nazionali per il benessere del proprio popolo piuttosto che arricchire le casse delle multinazionali USA, è altrettanto vero che un attacco così deciso e mirato contro l’isola non si vedeva da tempo. Ma perché Cuba e perché proprio ora? Le ragioni risiedono principalmente nella situazione generale del Sudamerica, dove il rapporto di forza tra i governi progressisti e antimperialisti di alcuni paesi e l’imperialismo nordamericano ha visto un mutamento repentino negli ultimi due anni. Anni in cui le posizioni di Washington hanno iniziato a traballare come conseguenza dell’avanzamento delle lotte popolari di massa nell’area.
Eppure, per un momento, il ciclo progressista sembrava essersi esaurito, in particolare dopo la lunga e dolorosa opera di logoramento del governo venezuelano tramite l’operazione Guaidò, col colpo di stato in Bolivia dell’ottobre 2019, quando la borghesia reazionaria filo USA prendeva il potere agitando bibbie e mantra anticomunisti e razzisti nel paese governato da 15 anni dai socialisti guidati da Evo Morales. Per l’occasione, tutta la stampa borghese occidentale iniziò a suonare in coro il de profundis del cosiddetto “socialismo del XXI secolo” che, pur tra mille contraddizioni, è l’orizzonte politico più rappresentativo delle recenti esperienze democratiche della regione. Secondo la falsa narrazione di tale stampa i popoli sudamericani avrebbero voluto liberarsi dai governi corrotti e autoritari, populisti e socialisti, dal Venezuela alla Bolivia per installare governi “liberi” e “democratici”. Il tutto mentre assistevamo, invece, alla presa del potere (in Bolivia) e al tentato golpe (in Venezuela) da parte di minoritari estremisti di destra, legati a uomini d’affari locali senza scrupoli e a squadracce reazionarie violente, espressione degli stessi strati sociali più privilegiati della società boliviana e venezuelana pronti ad aprire le porte agli imperialisti statunitensi.
A queste mistificazioni della stampa borghese (che di queste opera di destabilizzazione è da sempre strumento attivo) corrispondevano logicamente i suoi silenzi su altri fatti di tutt’altro tenore. Dal febbraio 2019 ad esempio, ad Haiti, erano in corso imponenti proteste – promosse da un ampio fronte costituito da partiti di opposizione, movimenti sociali urbani e rurali, sindacati, associazioni professionali e religiose – contro il presidente, fantoccio degli USA, Jovenel Moise (liquidato pochi giorni fa in circostanze oscure da un commando di sicari colombiani e statunitensi molti dei quali rivelatisi addestrati dal Pentagono, assassinio che in nulla, è bene precisare, aiuta la lotta di massa in corso a Haiti contro l’imperialismo).
E proprio mentre in Bolivia si sovvertiva il risultato elettorale e Morales doveva scappare prima in Messico poi in Argentina, esplodevano invece in Cile incessanti e partecipatissime manifestazioni sotto il segno del rifiuto del neoliberalismo, contro il governo di destra di Pinera e le sue politiche antisociali. L’Estallido social – nome col quale è stato identificato il movimento che ha visto protagonisti lavoratori, studenti, pensionati, comunità indigene, movimenti femministi e LGBTQ – ha determinato una situazione inedita in questo paese centrale per gli equilibri dell’America Latina. Esso ha imposto, oltre alle istanze sociali, il bisogno di un nuovo processo democratico fino alla proclamazione, il 25 ottobre 2020 – in un paese in cui la costituzione riflette alla lettera i dettami del neoliberalismo codificati dalla scuola di Chicago – di una nuova Assemblea costituente al fine di archiviare la costituzione promulgata durante la dittatura di Pinochet e le politiche economiche da lui inaugurate. In parallelo, in Bolivia, a un anno esatto dal golpe, nel corso di nuove elezioni che, pur procrastinando per mesi, i golpisti sono stati obbligati a concedere, si è assistito alla rivincita delle forze progressiste con una schiacciante vittoria elettorale al primo turno che ha chiuso definitivamente la bocca alla cricca della incapace e litigiosa destra golpista di governo, e che ha permesso di rimettere in sella il MAS guidato stavolta da Luis Arce.
Un autunno caldo, quello del 2020, nel segno della riscossa delle forze popolari e antimperialiste che vedeva altresì l’entrata in scena un nuovo attore di peso: le masse della Colombia le quali, sulla spinta dei sindacati e dei movimento sociali del paese, si sollevavano a due riprese: prima, nel settembre 2020, contro la violenza della polizia, e poi nell’aprile del 2021, con rinnovato vigore, contro contro la riforma fiscale voluta da Ivan Duque, di chiaro stampo liberista e in linea con le richieste del Fondo monetario internazionale. Una manovra lacrime e sangue in cui si chiedeva enormi sacrifici alle classi popolari già provate dalla crisi pandemica che ha toccato duramente l’economia colombiana. Duque fu obbligato a ritirare la contestata riforma senza per questo venire a capo della protesta che continua nel silenzio dei media occidentali, i quali ignorano l’impressionante bilancio di morti e feriti nella ormai instabile Colombia, vero e proprio vassallo e avamposto USA nella regione.
Infine, come un fulmine a ciel sereno è arrivata la vittoria di Pedro Castillo, candidato progressista del partito di ispirazione marxista Peru Libre, alle recenti elezioni in Peru, altro feudo storico della peggior borghesia filo USA e vendipatria. Vittoria del tutto inaspettata, sull’onda di un movimento sindacale della scuola che aveva bloccato il paese per mesi e di cui Castillo si era fatto rappresentante, con gran radicamento nelle campagne a maggioranza indigena, contro cui nessun golpe è stato stavolta possibile nonostante i tentativi della candidata di destra di contestare il risultato elettorale (l’esito del golpe boliviano e la farsa in cui si è terminata l’operazione Guaido hanno raffreddato gli animi in tal senso). A chiudere la sequenza, l’atto terzo del “dramma cileno” dove le elezioni per la composizione della Costituente hanno registrato una vittoria netta della sinistra, dei comunisti e degli indipendenti espressione del movimento sociale, e la quasi cancellazione delle liste della destra che non avranno alcun potere di veto sulla nuova Costituzione.
I circoli dirigenti USA si ritrovano allora a fare i conti con una regione in cui alleati strategici sono fragilizzati (aspettando il Brasile dove Bolsonaro sembra incapace di assicurare la rielezione di fronte al redivivo Lula), e due fedelissimi baluardi nella regione, il Cile e la Colombia, rischiano di sfuggirgli di mano. Questo mentre i paesi democratici e antimperialisti coi socialisti al governo come Venezuela, Bolivia, Nicaragua resistono e sembrano sempre meno isolati, dimostrando di avere dalla loro ampie basi sociali, un possibile nuovo alleato nel Perù, e trovando non di rado sponda nei due grandi paesi governati dal centrosinistra (Messico e Argentina) che sembrano meno inclini a seguire ciecamente i desiderata di Washington.
Il rapporto di forza che si delinea non è dei migliori dal punto di vista dell’imperialismo statunitense. Il continente è in fibrillazione contro le politiche neoliberali imposte dalle istituzioni che fanno riferimento al capitale finanziario e le classi dirigenti che le mettono in pratica scontano la collera popolare che si traduce anche in risultati politici potenzialmente pericolosi per la tenuta di un ordine geopolitico ed economico imperniato sull’egemonia nordamericana. In questo contesto, Cuba, con la sua stabilità rivoluzionaria e la sua immagine di baluardo simbolico e morale dell’indipendenza delle nazioni sudamericane, è ritornata a essere obiettivo principale.
Mirare al cuore del progressismo latino-americano, riaffermare la supremazia sul cortile di casa colpendone il centro più avanzato e civile, è importante in questo momento per dare un segnale alle forze reazionarie locali che guardano a Washington logorate da sconfitte inattese. Perché se è vero che Cuba ha aperto la strada e ha rotto il ghiaccio in tempi in cui il Sudamerica era saldamente sotto il giogo imperialista, colpire adesso duramente Cuba serve appunto per tentare di fiaccare il morale delle forze popolari che nella regione lottano con successo per il progresso sociale e l’indipendenza e dare ossigeno alle borghesie, con un gran colpo politico che segni qualche punto sul terreno dell’egemonia (basti vedere la copertura mediatica spropositata per l’evento, l’attenzione al livello globale e tutte le schiere di commentatori che come avvoltoi proclamano “la morte del comunismo” a reti unificate).
Se cade Cuba, sono tutte le lotte sparse nel continente sotto le bandiere del socialismo e dell’indipendenza a perdere forza e un punto d’appoggio imprescindibile. Se cade Cuba, resteranno sotto le sue macerie non solo i socialismi “del XXI secolo”, ma anche le più innocue socialdemocrazie, proprio come sotto i detriti del Muro in Europa è stata sepolta ogni idea di autentica sinistra, di socialismo e di marxismo-leninismo. L’imperialismo ne è cosciente, e non sapendo più come arginare singolarmente le forze sparse e vitali dappertutto sul continente ha pensato bene di concentrare le proprie attenzioni per tentare di rovesciare il modello più rappresentativo delle lotte per l’emancipazione dei popoli: Cuba. Assestando un colpo così deciso in questa lotta di classe su scala regionale, gli imperialisti ci svelano ancora una volta come le vicende cubane rappresentino una manifestazione plastica del costante conflitto tra masse popolari (nella loro peculiare composizione operaia/contadina/indigena/piccolo-borghese) e borghesia legata agli USA nelle specifiche condizioni sudamericane.