È trascorso ormai un anno e mezzo da quando in Italia il blocco dei licenziamenti è entrato in vigore. La misura, adottata dal governo Conte II (composto da Cinque Stelle, PD, LeU, IV) nel febbraio 2020 agli inizi della crisi pandemica, era finalizzata a mettere un freno alla catastrofe sociale che si preannunciava. L’imprenditoria italiana ha ovviamente accolto con estrema insofferenza il blocco, ma data l’inedita situazione e la sua gravità, nonché gli equilibri sociali e politici da tenere in conto, è stato comunque rinnovato, col susseguirsi dei lockdown, almeno fino a questi giorni.
Sì, perché il suo tempo è ormai definitivamente scaduto, dato che il governo Draghi ne ha annunciato la fine proprio ieri. Le pressioni del mondo industriale e della destra di governo (e di pseudo opposizione), così come il silenzio assenso del PD, incline a “superare” il blocco proponendo mediazioni al ribasso spacciate per “vittorie” in difesa dei lavoratori per tenere buona una parte del suo elettorato, hanno sortito l’effetto sperato sul governo.
Quando #GovernoDraghi annunciò che non avrebbe prorogato il blocco dei licenziamenti abbiamo lavorato su quella che ci pareva l’unica opzione ragionevole; la #selettività dei sostegni ai lavoratori seguendo il livello di crisi dei settori. E quello di oggi sembra buon compromesso
— Enrico Letta (@EnricoLetta) June 28, 2021
Non che ci volesse molto, dato che Draghi è ideologicamente affine al liberismo più fondamentalista e antioperaio ed è stato messo lì in quanto terminale privilegiato di gestione degli interessi capitalistici. Ma le spinte da parte del mondo padronale unite all’ignavia dei sindacati confederali, che dopo una manifestazione rituale e inoffensiva nel fine settimana hanno accettato lo sblocco “selettivo” – il blocco cioè prorogato solo per il settore tessile, per quello della moda e per il calzaturiero – addirittura cantando vittoria, non potevano che convergere verso questo esito nefasto.
Egemonia del “pensiero” padronale
Infatti nell’arena del dibattito pubblico abbiamo avuto per mesi una totale saturazione della propaganda padronale con da un lato un settore dell’imprenditoria – in particolare quella legata ai servizi quali commercio, ristorazione e turismo – che si stracciava le vesti perché non trovava lavoratori da sfruttare a causa del Reddito di Cittadinanza; e dall’altra il mondo dell’industria e dell’edilizia, che piagnucolava perché non libero di licenziare. Una classe capitalista italiana che insomma al contempo vuole assumere, ma non trova – dice – lavoratori, e licenziare, perché ne ha troppi. Una borghesia schizofrenica? Tutt’altro, al netto della differenza dei settori e quindi degli interessi materiali in gioco, la logica è sempre e solo quella di prepararsi a massimizzare i profitti in vista delle riaperture.
Lo sblocco consente dunque alle aziende dei settori in fase di ripartenza nell’industria e nell’edilizia di tornare a licenziare. Ma che le imprese “in ripartenza” chiedano di privarsi di manodopera in un momento di ripresa degli ordini e dell’attività sembrerebbe controintuitivo, se non fosse che i capitalisti vogliono in realtà altro, ossia: risparmiare sugli stipendi per meglio lucrare sulla ripresa. Come? Avendo mano libera per licenziare (“ristrutturare” nel gergo aziendale) possono 1) intensificare lo sfruttamento della sempre più esigua manodopera restante 2) privarsi di figure di lavoro a tempo indeterminato, da sostiture con precari o con tutele crescenti, poco pagati e senza diritti, a seconda del ciclo produttivo. Avendo questo potere in mano, sbilanciano sempre più i rapporti di forza nella fabbrica e nei luoghi di lavoro verso lo stradominio padronale e annichiliscono qualsiasi volontà di rivendicazione autonoma dei lavoratori in termini di salario, diritti, tempi, carichi di lavoro e decisioni. La cosa è ancor più facile se a condividere questo progetto ci sono anche le direzioni dei sindacati confederali.
Accomuna dunque i capitalisti di entrambi i settori – terziario privato e industria/edilizia – l’impellente bisogno in questo momento di abbassare ulteriormente i salari al fine di aumentare i profitti, gli uni chiedendo l’annullamento del sussidio che li obbliga a offrire paghe superiori ai 500 euro al mese; gli altri ottenendo la rimozione di un vincolo che li obbliga a “tenere” lavoratori con contratti troppo vantaggiosi e pagare salari, sempre bassi se confrontati ad altri paesi sviluppati, ma troppo “pesanti” – il settore manifatturiero è quello in cui data la taglia delle aziende si applicano di più i contratti nazionali e la rappresentazione sindacale è più radicata – per chi vuole approfittare appieno del bacino del precariato creato a partire dal “Pacchetto Treu” nel 1997, dalla “Legge Biagi” nel 2003, dall’estensione dei voucher a tutti i settori nel 2012 e infine dal “Jobs Act” del 2015.
Al centro di tutto, il precariato
Il proliferare di contratti precari è stato inoltre anche la causa principale per cui il blocco dei licenziamenti, benché tanto vituperato, ha in realtà avuto effetti limitati, non essendo poi stato quel freno decisivo all’erosione dei posti di lavoro e ai licenziamenti di massa messi in atto comunque dal padronato in questo anno e mezzo:
Sono cessati 9.339.046 contratti nel corso del 2020, e quasi in 558.499 casi si è trattato di veri e propri licenziamenti […] Nel corso del 2019 i licenziamenti erano stati 866.895, e la flessione è stata dunque solo del 35% e non di un numero molto più alto come ci si sarebbe aspettato logicamente in base al contenuto dei decreti emanati dall’inizio della pandemia. Oltre ai licenziamenti ufficiali è necessario anche tenere conto di tutti quei rapporti di lavoro che sono cessati per cause naturali e di durata laddove invece ci sarebbe stato un rinnovo[1]
E questo grazie appunto al non rinnovo degli innumerevoli contratti a tempo, part time, a progetto; chi ha pagato il prezzo più caro sono stati i giovani, le donne e i lavoratori dei settori dei servizi, della ristorazione e del turismo, categorie e settori che avevamo analizzato essere stati tra i più investiti dalla precarizzazione dei rapporti di lavoro:
la crescita del lavoro precario ha investito una percentuale sempre maggiore di lavoratori, attestandosi in media attorno al 10% e talvolta anche di più. Inoltre, nel nostro paese la diffusione del lavoro precario è generalmente più diffuso fra le donne, colpendo il 30% delle lavoratrici, contro il 10% degli uomini: tra il 2000 e il 2015 le lavoratrici precarie sono aumentate del 50%, così come quelle costrette, per scelta o per forza, al part-time sono addirittura aumentate del 69%. Viene poi constatato, come ovvio che sia, che i giovani under 30 siano la fetta di lavoratori dove il precariato si è diffuso maggiormente. Nel 2015, sul totale dei contratti stipulati che coinvolgevano 6 milioni di lavoratori (a fronte di cessazioni per 5,7 milioni), ben il 65,5% erano precari [2]
Quindi per concludere, a fronte di trecentocinquantamila posti mantenuti grazie al blocco nel 2020 e 2021[3], almeno seicentomila proletari rinchiusi nella gabbia del precariato hanno comunque perso il lavoro[4]. Il piagnisteo dei capitalisti appare allora del tutto ideologico, poiché “il danno” materiale apportato dal blocco dei licenziamenti e dal RdC è esiguo o inesistente. Essi intendono piuttosto vincere una battaglia politica in cui non è concesso neanche pensare che possano esistere i più minimi ostacoli o freni (e Rdc e blocco questo sono, non hanno certo impedito la crescita vertiginosa della povertà e la stagnazione e contrazione dei redditi) al loro potere sociale. Per questo una misura timida, davvero poco a fronte del cataclisma sistemico che si abbatte sulle classi popolari, è stata avversata come un’intollerabile intromissione al sacro diritto del “mercato”, cioè dei proprietari di mezzi di produzione, di disfarsi a piacimento delle persone a seconda del proprio tornaconto.
Inoltre, in aggiunta allo sblocco dei licenziamenti sulla classe lavoratrice e in generale sulle fasce più deboli della popolazione incombe un’altra mannaia: quello dello sblocco degli sfratti. La conversione in legge del decreto Sostegni 1 impone infatti una road map in tre scaglioni che sancisce il via libera all’esecuzione degli sfratti che erano stati bloccati, come i licenziamenti, a causa dell’eccezionalità della crisi pandemica. Entro il primo gennaio del 2022, infatti, si prevede che oltre 70.000 famiglie (quindi centinaia di migliaia di persone) si vedranno costrette in mezzo ad una strada e per lo più si tratta di lavoratori precari e persone che, nonostante il “blocco” dei licenziamenti, hanno perso il lavoro. Le unioni degli inquilini parlano apertamente di situazione emergenziale gravissima, tanto più se la stagione di carneficina sociale, che si prevede dopo lo sblocco totale dei licenziamenti, porterà altre centinaia di migliaia di lavoratori nell’inferno della disoccupazione. [5]
Tutto questo ci dà la misura della ferocia e della determinazione dei capitalisti italiani e dei governi che ad essi rispondono nel voler scaricare tutti i costi della crisi sui lavoratori. Di un sistema politico e mediatico che mette all’ordine del giorno tutte le richieste più estreme e senza mediazioni che non siano quelle a beneficio del “vecchio mondo” del capitalismo straccione, sfruttatore ed evasore italiano e il cui codazzo di giornalisti e pseudo intellettuali blatera dalla mattina alla sera sempre pronto a giustificare lo sfruttamento, denunciare l’indolenza dei poveri e l’avidità dei lavoratori che pretendono pure di essere pagati e aiutati/sussidiati da uno “Stato comunista e bolscevico”, che, purtroppo esiste solo nella loro propaganda reazionaria a reti unificate. Quella, per intenderci, che rappresenta l’intero spettro del dibattito pubblico nazionale.
[1] https://quifinanza.it/lavoro/video/blocco-licenziamenti-non-ha-funzionato/500722/
[4] https://ilmanifesto.it/emiliano-brancaccio-il-blocco-dei-licenziamenti-ha-bloccato-ben-poco/