Pochi giorni fa ricorreva il 150° anniversario della repressione della Comune di Parigi, in occasione di tale ricorrenza, che marca la fine della prima esperienza di rivoluzione proletaria della storia, pubblichiamo la traduzione di un articolo del filosofo francese Alain Badiou sul rapporto Partito-Stato, o meglio tra Stato e partito rivoluzionario. In questo articolo Badiou intende rileggere il portato dell’esperienza comunarda riconsiderandola alla luce di un confronto con altre esperienze rivoluzionarie della storia del movimento operaio novecentesco, in primo luogo la rivoluzione russa e l’edificazione dello Stato sovietico, e in secondo luogo la Rivoluzione Culturale di epoca maoista.
Se nella prima parte l’autore enfatizzando “le ambiguità” sembra talvolta sottovalutare i contributi di Marx ed Engels nella teorizzazione della dittatura del proletariato (poi approfondita anche da Lenin), successivamente solleva un’importante questione che ha caratterizzato le esperienze socialiste del Novecento: ovvero la sovrapposizione del Partito rivoluzionario con lo Stato socialista e che, in diversi casi, ha coinciso con la sclerotizzazione degli apparati statali favorendo l’avvento del cosiddetto revisionismo moderno dopo il XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, in seguito alla morte di Stalin. Sebbene le letture del modello leninista scaturito dalla rivoluzione d’Ottobre e dall’edificazione socialista guidata da Stalin sembrano non tenere nel debito conto la dialettica in seno alla società sovietica – alla lotta di classe interna, che si intensificherà nella seconda metà degli anni ’30, così come i pericoli di accerchiamento esterni che richiedevano una struttura statale (la dittatura del proletariato) solida e pronta ad affrontare le traversie di un difficile e non breve processo rivoluzionario – è utile però leggere le osservazioni di Badiou come un tentativo di problematizzare il già accennato irrigidimento degli apparati statali nelle esperienze socialiste novecentesche.
Se già la dirigenza staliniana aveva cercato di affrontare il problema durante gli anni ’30 ( prima di arenarsi con l’acuirsi della lotta di classe nel periodo delle cosiddette purghe), con quella che Grover Furr chiama la stagione della “lotta per le riforme democratiche” intrapresa da Stalin e ravvisabile nella stessa Costituzione del ’36, l’attenzione di Badiou si concentra su di un altro più esplicito tentativo di mobilitazione delle masse contro l’ossificazione degli apparati del Partito-Stato, ovvero quello alla base della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria lanciata da Mao in Cina dalla metà degli anni ’60. Esperienza che l’autore prova a confrontare con gli afflati di mobilitazione popolare che caratterizzarono l’esperienza comunarda, cercando di offrire un punto di vista più ampio sul rapporto fra Partito e Stato e riguardo alla necessità di “capire che la dittatura del proletariato non può essere una semplice formula statuale, e che perseguire la marcia verso il comunismo richiede il ricorso a una mobilitazione rivoluzionaria delle masse”. Pertanto, Badiou prova a sollecitare i marxisti di oggi a rinfondere creatività alla teoria-prassi rivoluzionaria per tentare, laddove possibile, di trascendere gli schemi tradizionali.
di Alain Badiou
Nel 1871, Karl Marx fornì un commento sulla Comune di Parigi interamente inscritto nel quadro della questione dello Stato. Per egli si trattò del primo caso storico in cui il proletariato assunse la sua funzione transitoria di direzione, o amministrazione, dell’intera società. Dalle iniziative della Comune, e dai suoi impasse, Marx fu portato a concludere che la macchina statale non sarebbe dovuta essere “presa” o “occupata”, bensì spezzata. Notiamo, per inciso, che il difetto principale dell’analisi risiede probabilmente nell’idea che, tra marzo e maggio 1871, era la questione del potere ad essere all’ordine del giorno. Pertanto, le risolute “critiche” che sono diventate prevalenti: ossia che ciò che mancava presumibilmente di più alla Comune fosse la capacità decisionale, “se” avesse marciato subito su Versailles, “se” avesse confiscato l’oro della Banca di Francia e così via; a mio avviso, questi “se”, mancano di contenuto reale. In realtà, la Comune non aveva né i mezzi per affrontarli adeguatamente, né, con ogni probabilità, i mezzi per metterli in pratica.
Il resoconto di Marx, infatti, è ambiguo. Se da un lato elogia tutto ciò che sembra condurre alla dissoluzione dello Stato – e più nello specifico dello Stato-nazione – vale a dire: l’abolizione da parte della Comune dell’esercito professionale in favore dell’armamento diretto del popolo, tutte le misure intraprese in merito all’elezione e alla revocabilità dei dipendenti pubblici, la fine della separazione dei poteri a vantaggio di una funzione decisionale ed esecutiva, l’internazionalismo (il delegato finanziario della Comune era tedesco, i capi militari polacchi etc); dall’altro lato, egli deplora le incapacità della Comune, incapacità “statali” [incapicités ètatiques, nell’originale, ndt.], vale a dire: la debole centralizzazione del comando militare, l’incapacità di definire le priorità finanziarie, le mancanze circa la questione nazionale, gli indirizzi alle altre città, quello che ha fatto e non ha detto sulla guerra alla Prussia e la mobilitazione delle masse provinciali.
È sorprendente vedere che, vent’anni dopo, nella prefazione del 1891 a una nuova edizione del testo di Marx, Engels formalizzi allo stesso modo le contraddizioni della Comune. Egli mostra, in effetti, che le due forze politiche dominanti del movimento del 1871, i proudhoniani e i blanquisti, finirono per fare esattamente l’opposto della loro rispettive ideologie. I blanquisti erano partigiani dell’accentramento e delle cospirazioni armate in cui un piccolo numero di uomini risoluti avrebbe preso il potere, per esercitarlo autorevolmente a vantaggio delle masse lavoratrici. Essi, invece, furono portati a proclamare una libera federazione di comuni e la distruzione della burocrazia statale. I proudhoniani erano ostili a qualsiasi appropriazione collettiva dei mezzi di produzione e promuovevano piccole imprese autogestite. Eppure finirono per sostenere la formazione di vaste associazioni di lavoratori allo scopo di dirigere la grande industria. Engels ne concludeva, abbastanza logicamente, che la debolezza della Comune risiedeva nel fatto che le sue forme ideologiche erano inadeguate per prendere decisioni di Stato. E, inoltre, che il risultato di questa opposizione bipolare fu semplicemente la fine del blanquismo e del proudhonismo, lasciando il posto a un unico [socialismo, il] “marxismo”.
Ma quanto è adeguata la visione di Marx e Engels del 1871, e anche quella del marxismo successivo, rispetto alla situazione. Di quali mezzi ulteriori una sua presunta egemonia avrebbe potuto dotare la Comune?
Il fatto è che l’ambiguità del resoconto di Marx sarà ripresa [sera levée] sia dai social-democratici sia dai leninisti, sulla questione fondamentale del partito, per oltre un secolo. In effetti, il partito “socialdemocratico”, il partito della “classe operaia” – o il partito “proletario” – e poi più tardi ancora il partito “comunista”, è allo stesso tempo libero rispetto allo Stato e deputato all’esercizio del potere. È un organo puramente politico costituito dall’elemento soggettivo e, come tale, esterno allo Stato. Per quanto riguarda il dominio, è libero; porta alla luce la questione della rivoluzione o della distruzione dello Stato borghese. Ma il partito è anche l’organizzatore di una forza centralizzata e disciplinata che è interamente orientata a prendere il potere dello Stato. Porta con sé la questione di un nuovo Stato, lo Stato della dittatura del proletariato.
Si può dire, quindi, che il partito “incarna” l’ambiguità della visione marxista della Comune, gli dà corpo. Diventa il luogo politico di una tensione fondamentale tra il carattere non statuale, persino anti-statalista, di una politica di emancipazione e il carattere statuale della vittoria e della durata di quelle politiche. Inoltre, questo indipendentemente dal fatto che la vittoria sia insurrezionale o elettorale: lo schema mentale è il medesimo. Questo è il motivo per cui il partito genererà (in particolare da Stalin in poi) la figura del partito-stato. Il partito-stato è dotato di capacità atte a risolvere i problemi che la Comune ha lasciato irrisolti: una centralizzazione della polizia e della difesa militare; la completa distruzione delle decisioni economiche borghesi; la mobilitazione e la sottomissione dei contadini all’egemonia operaia; la creazione di una potente internazionale, ecc. Non per nulla, come vuole la leggenda, Lenin danzò nella neve il giorno in cui il potere bolscevico raggiunse e superò i settantadue giorni, vale a dire l’intero periodo della Comune di Parigi.
Eppure, sebbene possa aver fornito una soluzione ai problemi dello Stato che la Comune non è stata in grado di risolvere, resta da chiedersi se nel risolverli lo Stato-partito non abbia tralasciato una serie di problemi politici che, a suo merito, la Comune era stata in grado di individuare. Ciò che comunque colpisce è che, pensata retroattivamente attraverso il partito-stato, la Comune è riducibile a due parametri: primo, alla sua determinazione sociale (i lavoratori); e secondo, a un esercizio eroico ma difettoso del potere. Di conseguenza, la Comune si svuota di ogni contenuto propriamente politico. È certamente commemorata, celebrata e rivendicata, ma solo come punto per l’articolazione della natura sociale del potere statale. Ma se questo è tutto, allora la Comune è politicamente obsoleta. È resa tale da ciò che Sylvain Lazarus aveva proposto di chiamare “il modo politico staliniano”, per il quale il luogo unico della politica è il partito. Ecco perché la sua commemorazione ne impedisce, in un certo qual modo, la riattivazione [cioè la ripresa, ndt].
Su questo punto c’è una storia interessante che riguarda Bertolt Brecht. Dopo la guerra, Brecht torna nella Germania socialista, nella zona di occupazione sovietica. Si avvia nel 1948 facendo tappa in Svizzera per avere notizie della situazione dall’estero. Durante il suo soggiorno scrive, con l’aiuto di Ruth Berlau, sua amante dell’epoca, un dramma storico intitolato I giorni della Comune. Questo è un lavoro ben documentato in cui personaggi storici si mescolano con gli eroi popolari. È un’opera teatrale più lirica e comica che epica; è una buona commedia, a mio avviso, anche se raramente eseguita. Ora, arrivato in Germania, Brecht propone di mettere in scena I giorni della Comune alle autorità. Ebbene, nell’anno 1949, le autorità in questione dichiarano inopportuna una simile rappresentazione! Poiché il socialismo è in procinto di affermarsi vittoriosamente nella Germania dell’Est, non ci sarebbe stato motivo di tornare a un episodio difficile e antiquato di coscienza proletaria come la Comune. Brecht, insomma, non aveva scelto un buon biglietto da visita. Non aveva capito che, giacché Stalin aveva definito il leninismo come «il marxismo dell’epoca delle rivoluzioni vittoriose», era inutile tornare alle rivoluzioni sconfitte. Detto questo, qual è l’interpretazione della Comune da parte di Brecht? Per giudicarlo leggiamo le ultime tre strofe della canzone intitolata “Risoluzione dei comunardi”:
Rendendoci conto che non ti persuaderemo a pagarci un salario dignitoso
Decidiamo che ti porteremo via le fabbriche
Rendendoci conto che la tua perdita sarà il nostro guadagno
Rendendoci conto che non possiamo dipendere da Tutte le promesse fatte dai nostri governanti
Abbiamo deciso per noi la buona vita inizia con la libertà
Il nostro futuro deve essere costruito secondo i nostri dettami
Rendendosi conto che il ruggito dei cannoni sono le uniche parole che capite
Vi dimostriamo che abbiamo imparato la lezione
In futuro rivolgeremo le armi contro di voi
Chiaramente, il quadro generale qui rimane quello dell’interpretazione classica. La Comune è definita come una combinazione di potere, di sociale, di soddisfazione materiale e di cannoni.
La “riattivazione” cinese
Durante la Rivoluzione Culturale, e soprattutto tra il 1966 e il 1972, la Comune di Parigi viene ripresa e molto spesso citata dai maoisti cinesi, come se, presi nella morsa della rigida gerarchia del partito-stato, cercassero nuovi riferimenti al di fuori della Rivoluzione d’Ottobre e del leninismo ufficiale. Così, nella decisione in sedici punti dell’agosto 1966, che è un testo probabilmente per lo più scritto dallo stesso Mao Zedong, si raccomanda di cercare ispirazione nella Comune di Parigi, in particolare per quanto riguarda l’elezione e il richiamo dei dirigenti delle nuove organizzazioni emersi dai movimenti di massa. Dopo il rovesciamento del municipio di Shanghai da parte di lavoratori e studenti rivoluzionari nel gennaio 1967, il nuovo organo del potere prende il nome di “Comune di Shanghai”, cioè a rimarcare il fatto che alcuni maoisti stavano cercando di rifarsi, politicamente, alla questione del potere e dello Stato in modo alternativo rispetto alla canonica forma staliniana del partito.
Invero questi si dimostrarono tentativi precari. Ciò è testimoniato dal fatto che, una volta che il potere era stato “preso” ed era imperativo installare nuovi organi di potere provinciale e municipale, il nome Comune venne presto abbandonato, e sostituito dal titolo molto più indistinto di Comitato Rivoluzionario. Ci sono anche elementi a testimonianza di ciò nella commemorazione del centenario della Comune in Cina nel 1971. Che questa commemorazione fosse più che un semplice tributo, che contenesse ancora gli elementi di una ripresa [“riattivazione” nell’originale, nel senso di un rimando all’eredità comunarda, ndt], è evidente dalle proporzioni delle manifestazioni. Milioni di persone marciavano in tutta la Cina. Ma a poco a poco si chiuse la parentesi rivoluzionaria, come è evidente dal testo ufficiale pubblicato per l’occasione, un testo che alcuni di noi lessero all’epoca, e che pochissimi di noi hanno conservato e possono rileggere (e che probabilmente è diventato difficile da reperire persino dagli stessi cinesi). Il testo in questione è: Viva la vittoria della dittatura del proletariato! In commemorazione del centenario della Comune di Parigi.
Si tratta di uno scritto molto ambivalente. Esso contiene, significativamente, nell’epigrafe una formula scritta da Marx al tempo della Comune stessa: “Se la Comune fosse distrutta, la lotta sarebbe solo rimandata. I principi della Comune sono eterni e indistruttibili; si presenteranno ancora e ancora finché la classe operaia non sarà liberata”. La scelta di questa citazione conferma che anche nel 1971 i cinesi considerano la Comune non semplicemente un episodio glorioso (anche se obsoleto) della storia delle insurrezioni operaie, ma un’esposizione storica di principi da riprendere. Ancora un’affermazione, che fa eco alla citazione di Marx, probabilmente di Mao: “Se la Rivoluzione Culturale fallisce, i suoi principi rimarranno non meno all’ordine del giorno”. Il che indica ancora una volta che la Rivoluzione Culturale faceva eco più alla Comune che all’Ottobre del 1917. L’importanza della Comune è resa evidente anche dal contenuto del testo della sua celebrazione, nella quale i comunisti cinesi si contrappongono ai dirigenti sovietici [dell’epoca, ndt]. Per esempio:
Nel momento in cui il proletariato e i popoli rivoluzionari del mondo celebrano il grande centenario della Comune di Parigi, la cricca dei rinnegati revisionisti sovietici si mette in azione, parlando con disinvoltura di “fedeltà ai principi della Comune” e attestandosi fintamente come successori della Comune di Parigi. Non hanno alcun senso di vergogna. Che diritti hanno i rinnegati revisionisti sovietici di parlare della Comune di Parigi?
È nel quadro di questa contrapposizione ideologica tra marxismo rivoluzionario creativo e statalismo retrogrado che lo scritto colloca sia il contributo di Mao sia, singolarmente, la stessa Rivoluzione Culturale, in continuità con la Comune:
Le salve della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria avviata e guidata dallo stesso presidente Mao hanno distrutto il quartier generale borghese guidato da quel rinnegato, traditore nascosto e crumiro Liu Shao-chi e hanno fatto esplodere il sogno appassionato degli imperialisti e dei revisionisti moderni di restaurare il capitalismo in Cina.
Il presidente Mao ha riassunto in modo esauriente gli aspetti positivi e negativi dell’esperienza storica della dittatura del proletariato, ha ereditato, difeso e sviluppato la teoria marxista-leninista della rivoluzione proletaria e della dittatura del proletariato e risolto, in teoria e in pratica, la questione più importante del nostro tempo: la questione del consolidamento della dittatura del proletariato e della prevenzione della restaurazione del capitalismo.
La formula fondamentale è “consolidare la dittatura del proletariato”. Invocare qui la Comune di Parigi significa capire che la dittatura del proletariato non può essere una semplice formula statuale, e che perseguire la marcia verso il comunismo richiede il ricorso a una mobilitazione rivoluzionaria delle masse. In altre parole, proprio come avevano fatto per la prima volta nella storia gli operai parigini del 18 marzo 1871, si è ritenuto necessario inventare all’interno di un’esperienza rivoluzionaria in corso d’opera – sempre alquanto precaria e imprevedibile – nuove forme per uno Stato proletario. Inoltre, all’inizio dello scritto, i maoisti avevano già dichiarato che la Rivoluzione Culturale era “la forma finalmente aperta della dittatura del proletariato”. Tuttavia, la concezione generale su politica e Stato rimaneva immutata. Il tentativo di “riattivazione” rivoluzionaria della Comune di Parigi rimane inscritto nelle premesse iniziali poiché è ancora dominato dalla figura tutelare del partito. Questo è chiaramente mostrato nel passaggio sulle carenze della Comune:
La causa fondamentale del fallimento della Comune di Parigi fu che, a causa delle condizioni storiche, il marxismo non aveva ancora raggiunto una posizione dominante nel movimento operaio e un partito rivoluzionario proletario con il marxismo come pensiero guida non era ancora nato…. L’esperienza storica mostra che dove esiste una situazione rivoluzionaria molto favorevole e un entusiasmo rivoluzionario da parte delle masse, è ancora necessario avere un nucleo forte di direzione del proletariato, cioè “un partito rivoluzionario… costruito sulla teoria rivoluzionaria marxista-leninista e sullo stile rivoluzionario marxista-leninista”.
Sebbene la citazione finale sul partito sia di Mao, avrebbe potuto essere altrettanto facilmente di Stalin. Ecco perché, nonostante il suo attivismo e la sua militanza, la visione maoista della Comune è rimasta in definitiva prigioniera del quadro partito-stato e, quindi, di quello che ho chiamato il “primo resoconto”. Alla fine di questo abbozzo dell’interpretazione classica, e di quella che ad essa fa eccezione, possiamo dire che oggi la visibilità politica della Comune di Parigi non è affatto evidente. Almeno, cioè, se ciò che intendiamo per “oggi” è il momento in cui dobbiamo raccogliere la sfida di pensare la politica al di fuori della sua soggezione allo Stato e al di fuori della struttura dei partiti o del partito. Eppure la Comune era un’esperienza politica che, appunto, non si situava in tale sudditanza o in tale quadro. Il metodo consisterà quindi nel mettere da parte l’interpretazione classica e affrontare i fatti e le decisioni politiche della Comune con un metodo completamente diverso.
Cos’è la “Sinistra”?
Per cominciare, notiamo che prima della Comune c’erano stati in Francia alcuni movimenti popolari e operai, più o meno armati, in dialettica con la questione del potere statale. Possiamo passare oltre i terribili giorni del giugno 1848, quando la questione del potere non sembra essere stata posta: gli operai, messi alle strette e cacciati da Parigi dalla chiusura degli opifici nazionali combatterono silenziosamente, senza guida, senza prospettiva. Disperazione, furore, massacri. Ma c’erano stati i Trois Glorieuses del luglio 1830 e la caduta di Carlo V; ci fu il febbraio 1848 e la caduta di Luigi Filippo; e infine il 4 settembre 1870 e la caduta di Napoleone III. Nell’arco di quarant’anni, giovani repubblicani e operai armati provocarono la caduta di due monarchie e di un impero. Questo è esattamente il motivo per cui, considerando la Francia come la “terra classica della lotta di classe”, Marx scrisse quei capolavori Le lotte di classe in Francia, Il 18 brumaio di Luigi Napoleone Bonaparte e La guerra civile in Francia.
Per quanto riguarda il 1830, il 1848 e il 1870, bisogna notare che essi condividono un tratto fondamentale, tanto più fondamentale quanto ancora attuale. Il movimento politico di massa è in gran parte proletario. Ma c’è una generale accettazione che il risultato finale del movimento comporterà l’arrivo al potere di cricche di politici repubblicani o orleanisti. Il divario tra politica e Stato è qui tangibile: la proiezione parlamentare del movimento politico attesta in effetti un’incapacità politica nei confronti dello Stato. Ma è altrettanto evidente che questa incapacità è vissuta a medio termine come un fallimento del movimento stesso e non come il prezzo di un divario strutturale tra stato e politica. In fondo, la tesi che prevale, soggettivamente, all’interno del movimento proletario, è che c’è o dovrebbe esserci una continuità tra il movimento politico di massa e i caratteri della sua linea di fondo come Stato. Da qui il tema ricorrente del “tradimento” (cioè i politici al potere tradiscono il movimento politico. Ma hanno mai avuto altra intenzione, anzi, altra funzione?). E ogni volta questo disperato leit-motiv del tradimento porta a una liquidazione del movimento politico, spesso per lunghi periodi.
Questo è di estremo interesse. Ricordiamo che il movimento popolare del maggio 1968 e la sua frangia “di sinistra” si sono esauriti in aiuto di François Mitterrand già ben prima del 1981. Ancora di più, la novità radicale e l’aspettativa politica dei movimenti di resistenza tra il 1940 e il 1945 sono venute meno poco dopo la liberazione, quando i vecchi partiti tornarono al potere sotto la coperta di Charles de Gaulle. Oggi, il “movimento” ambientale – dalla mobilitazione dei sindacati contro la riforma delle pensioni, la nuit debout, il movimento contro la riforma del diritto del lavoro, ai Gilet Gialli – dà vita solo ai François Holland, Emmanuel Macron o Jean-Luc Mélenchon del nostro tempo. Tutte queste creature continuano l’opera degli assassini della Comune e degli ancora celebrati fondatori della Repubblica: i Jules Favre, i Jules Simon, i Jules Ferry (quelli che Henri Guillemin chiama “la repubblica dei Jules”), con gli Adolphe Thiers e Ernest Picard in attesa dietro le quinte. E ancora oggi siamo chiamati a “ricostruire la sinistra”. Che farsa!
È vero che la memoria della Comune testimonia anche la costante tattica di adeguamento che i trasformisti parlamentari intraprendono in relazione alle irruzioni della politica di massa: non si trova il Mur des fédérés, magro simbolo dei lavoratori martiri, accanto al grande viale Léon Gambetta? quel parlamentare combattente e fondatore, insieme ai “Jules”, della Terza Repubblica? Ma a tutto questo la Comune fa eccezione. Perché la Comune è ciò che ha rotto, per la prima volta, e ancora oggi, in Francia, per l’unica volta, con il destino parlamentare e “democratico” dei movimenti politici popolari e operai. La sera della resistenza nei quartieri operai, 18 marzo 1871, quando le truppe si erano ritirate non avendo potuto prendere i cannoni, si sarebbe potuto fare un appello a tornare all’ordine, a negoziare con il governo, e a tirar fuori dal cilindro della storia una nuova cricca di opportunisti. Questa volta non ci sarebbe stato niente del genere. Tutto è concentrato nella dichiarazione del Comitato Centrale della Guardia nazionale, ampiamente diffusa il 19 marzo: “I proletari di Parigi, tra i fallimenti e i tradimenti delle classi dirigenti, hanno capito che è suonata per loro l’ora di salvare la situazione prendendo nelle proprie mani la direzione della cosa pubblica”. Questa volta, questa volta unica, il destino non fu rimesso nelle mani di politici competenti. Questa volta, questa volta unica, il tradimento fu invocato come stato di cose da evitare e non come semplice risultato di una scelta sfortunata. Questa volta, questa volta unica, la proposta fu di affrontare la situazione esclusivamente sulla base delle risorse del movimento proletario.
Qui siamo dinanzi ad una vera dichiarazione politica. Il compito è pensare al suo contenuto. Ma prima è essenziale una definizione strutturale: stabiliamo di chiamare “sinistra” l’insieme del personale politico parlamentare che proclama di essere l’unico attrezzato ad affrontare le conseguenze generali di un singolo movimento politico. O, in termini più contemporanei, che sono gli unici in grado di organizzare “movimenti sociali” con una “prospettiva politica”. Possiamo, quindi, descrivere la dichiarazione del 19 marzo 1871, proprio come una dichiarazione di rottura con la sinistra. Questo è ovviamente ciò che i comunardi hanno dovuto pagare con il proprio sangue. Perché, almeno dal 1830, la “sinistra” è stata l’unica risorsa dell’ordine costituito durante movimenti di grande portata. Ancora, nel maggio 1968, come ben presto Georges Pompidou comprese, solo il Partito Comunista Francese riuscì a ristabilire l’ordine nelle fabbriche. La Comune è l’unico esempio di rottura con la sinistra di tale portata. Questo, di sfuggita, è ciò che mette in luce la virtù eccezionale, il contributo paradigmatico – più che l’Ottobre del ‘17 – che ha avuto per i rivoluzionari cinesi tra il 1965 e il 1968, e per i maoisti francesi tra il 1966 e il 1976: periodi in cui il compito era precisamente quello di rompere con ogni sottomissione a quell’emblema, la “sinistra” – fosse al potere o all’opposizione (ma, in modo profondo, sempre al potere) – in cui si erano trasformati i partiti comunisti.
È vero, dopo essere stata schiacciata, la “memoria” di sinistra ha assorbito la Comune. La mediazione di quella paradossale incorporazione si è concretizzata in una lotta parlamentare per l’amnistia dei comunardi esiliati o ancora detenuti. Attraverso questa lotta la sinistra sperava in un consolidamento senza rischi del suo potere elettorale. Dopo di che venne l’epoca – sulla quale ho detto qualche parola – delle commemorazioni. Oggi la visibilità politica della Comune deve essere restituita da un processo di dis-incorporazione: nata dalla rottura con la sinistra, deve essere estratta dall’ermeneutica di sinistra che per tanto tempo l’ha travolta. Nel fare ciò, approfittiamo del fatto che la sinistra, la cui bassezza è costitutiva, è ormai caduta così in basso che non è più necessaria per mantenere quello che chiamo l’ordine capital-parlamentarista [capital-partiamentary, nell’originale, in riferimento al regime capitalista “liberaldemocratico, ndt]. La fedeltà alla Comune di Parigi non è questione di memoria, ma di nuovo pensiero e futura innovazione politica.
Articolo originale: https://monthlyreview.org/2021/05/01/the-paris-commune-marx-mao-tomorrow/