La Palestina occupata e la Colombia hanno visto negli ultimi giorni un acuirsi della violenza terroristica. Nel primo caso da parte dei coloni israeliani, spalleggiati dalla polizia, intenti nell’espulsione forzata della popolazione palestinese del quartiere Sheik Jarrah a Gerusalemme, in quello che non può essere definito altrimenti che un brutale episodio di pulizia etnica; nel secondo caso ad opera di polizia, esercito e bande paramilitari scagliate dal fantoccio USA Iván Duque, degno erede in ciò di Álvaro Uribe, contro le mobilitazioni popolari innescate da un’annunciata riforma fiscale pesantemente regressiva.
Le efferatezze di questi giorni, è bene precisarlo, non sono né improvvise né eccezionali, ma rientrano, tanto in Palestina quanto in Colombia, in un quadro di pluridecennale oppressione. Per quanto riguarda la Palestina la pulizia etnica iniziò già prima della Nakba e – contrariamente a quanto millantato da Israele e dai suoi apologeti – non si trattò di un’evacuazione volontaria a seguito di fantomatici ordini da parte araba o conseguenza della guerra del ’48, bensì di una politica consapevolmente perseguita dai dirigenti sionisti; una politica che trovava la sua formulazione nel Piano Dalet, il quale non lasciava adito a dubbi su come l’Haganah (organizzazione paramilitare antesignana dell’esercito israeliano) dovesse operare nei villaggi palestinesi, raccomandando esplicitamente di distruggerli ed espellerne la popolazione, e che si concretizzava in una serie di massacri tra i quali Deir Yassin è solo uno degli esempi più atroci.
Politica del resto implicita nell’ideologia del movimento sionista, il cui carattere colonialista ed espansionista non è mai stato sottaciuto nelle dichiarazioni dei suoi dirigenti e nei suoi programmi, ma semmai spacciata tramite slogan mistificatori come “una terra senza popolo per un popolo senza terra” o sul deserto “fatto fiorire” dalla presenza sionista; carattere colonialista ed espansionista ben chiaro ai funzionari del suo patrocinatore principale, l’imperialismo britannico prima e, in seguito, quello statunitense (vedi un nostro precedente articolo).
In merito alla Colombia, la violenza contro la popolazione da parte delle forze armate – in particolare nei confronti di una delle sue componenti più oppresse, i contadini, e col pretesto di contrastare i gruppi armati formatisi per difenderli – è fenomeno di lunga data di cui non mancano esempi nella cronaca di questi giorni:
#ParoNacional11M ✊| Hoy en la mañana el ESMAD agredió violentamente a comunidad en el punto Sameco.
Manifestantes realizaban mercado campesino para abastecer a los vecinos, segun denuncias, el atropello policial se realizó para el paso de camiones de gaseosas.@WOLA_org https://t.co/5WKXQT0aQv
— Agencia Prensa Rural (@PrensaRural) May 11, 2021
Ma senza andare troppo indietro, almeno dagli anni Sessanta col succedersi di governi liberal-conservatori, perdura l’imperversare di squadre paramilitari ferocemente anticomuniste. Governi liberal-conservatori impegnati inoltre a consolidare lo status del paese, unico in America del Sud a inviare truppe in Corea e oggi sede di numerose installazioni militari di Washington, quale avamposto dell’imperialismo USA; prima contro Cuba sotto il governo del liberale Alberto Lloras Camargo e del suo successore Guillermo León Valencia, che per di più accolse militari statunitensi per addestrare l’esercito alla contro-insurrezione, e più recentemente contro il Venezuela con Uribe e successori.
Cosa sta accadendo in Colombia e in Palestina: i fatti
In Colombia le manifestazioni sono partite il 28 aprile contro la riforma fiscale voluta da Ivan Duque. La riforma, di chiaro stampo liberista e in linea con le richieste del Fondo monetario internazionale, prevedeva l’aumento delle tasse su beni di prima necessità come quelli alimentari (corrispettivo della nostra Iva) e servizi e l’abbassamento della soglia a partire dalla quale si inizia a pagare l’imposta sul reddito. In pratica una manovra lacrime e sangue in cui si chiedevano enormi sacrifici alle classi popolari già provate dalla crisi pandemica che ha toccato duramente l’economia colombiana. Infatti il contesto colombiano è quello di un inferno del capitalismo in cui la spaventosa disuguaglianza sociale si allarga di giorno in giorno: nell’ultimo anno un altro milione di posti di lavoro sono stati persi e al momento si stima che il 43 per cento della popolazione viva nella povertà. Ora, al contrario di Argentina e Bolivia che hanno adottato misure di tassazione maggiormente progressive, una patrimoniale, per trovare le risorse necessarie a dare ossigeno alle casse dello Stato per investire nei settori essenziali, il governo colombiano, col pretesto di dover trovare fondi per i programmi sociali futuri e sconfiggere la povertà, ha pensato bene di vessare le classi popolari, invece delle multinazionali e della borghesia famelica.
La reazione dei sindacati e dei movimento sociali è stata però immediata, gli scioperi hanno infiammato il paese e sono stati estremamente partecipati, in particolare quello generale del Primo Maggio, svoltosi in tutte le maggiori città. La mobilitazione popolare è stata talmente forte che dopo giorni di repressione sfrenata il governo e il ministero delle finanze hanno dovuto ritirare la riforma. Ma non per questo le proteste si sono fermate, dato che l’avversione alla riforma fiscale è stata solo un catalizzatore del malcontento diffuso nel paese contro la povertà, la disoccupazione, le disuguaglianze e la violenza del regime e delle forze dell’ordine, contro le quali vi era già stato un forte movimento di protesta lo scorso settembre dopo la diffusione di un video in cui un uomo veniva picchiato e ucciso dai colpi della polizia.
Il brutale modus operandi delle forze dell’ordine colombiane – che non suscita la minima protesta o indignazione da parte delle istituzioni delle cosiddette liberaldemocrazie occidentali, nonostante i quasi 50 morti in dieci giorni; per non parlare delle centinaia di “desaparecidos” e del migliaio di detenzioni arbitrarie – è figlio di una politica repressiva delle lotte popolari, che ha nella figura dell’ex-presidente Uribe l’ispiratore se non il vero e proprio burattinaio. In questo suo recente tweet, illustrando una road map di 4 punti per fermare le proteste, ha fatto aperto riferimento alla teoria della “revolucion molecular disipada”: elucubrazione, non troppo originale, di un ideologo neonazista cileno, che prevede di trattare qualsiasi protesta sociale, anche la più pacifica, come un’azione sediziosa frutto di un complotto rivoluzionario mirante a rovesciare il governo borghese.
1.Fortalecer FFAA, debilitadas al igualarlas con terroristas,La Habana y JEP. Y con narrativa para anular su accionar legítimo;
2. Reconocer: Terrorismo más grande de lo imaginado;
4. Acelerar lo social;
5. Resistir Revolución Molecular Disipada: impide normalidad, escala y copa— Álvaro Uribe Vélez (@AlvaroUribeVel) May 3, 2021
Nuove formule per il terrorismo di Stato, niente di nuovo sotto il sole, soprattutto in Colombia dove la borghesia, legata a doppio filo con l’imperialismo statunitense è ben avvezza all’uso del terrore nei confronti della popolazione civile, come ci ricordano le tristi vicende degli squadroni della morte di Uribe che per decenni hanno massacrato civili facendoli passare per guerriglieri al fine di intascare i ricchi premi per la repressione della guerriglia, una specie di cottimo della morte, il noto scandalo dei “falsi positivi”.
Le nuove violenze israeliane contro i palestinesi hanno preso invece il via la scorsa settimana. Dopo giorni di manifestazioni dell’estrema destra a Gerusalemme al grido di “morte agli arabi”, la notte del 4 maggio le forze israeliane hanno preso d’assalto il quartiere Sheik Jarrah. Quest’ultimo, situato nella zona est della città, e da anni sotto il tiro dei coloni con l’assenso delle autorità israeliane, ha visto svolgersi infatti una serie di sit-in di palestinesi per protestare contro l’evacuazione forzata di alcune famiglie palestinesi dalle loro case.
Per i palestinesi, la lotta per Sheikh Jarrah va oltre i singoli casi di espulsione. È la lotta contro la cancellazione metodica d’una comunità, di un popolo e di una memoria […] Gli ultimi eventi sono per loro la prova definitiva dei progetti israeliani di sradicare la loro presenza in città
Come se non bastasse, sono stati poi aggrediti migliaia di palestinesi riunitisi per la preghiera del Venerdì sera e poi trattenutisi nella Moschea di Al Aqsa, terzo luogo sacro dell’Islam. L’esercito israeliano, anche in questa occasione, non ha esitato a bombardare con granate e gas lacrimogeni l’interno della Moschea piena di fedeli, facendo ieri più di trecento feriti e incendiando alcune parti della struttura, tra la gioia genocida dei manifestanti israeliani che fuori dalla spianata della Moschea esultavano invocando lo sterminio degli arabi.
While Al Aqsa Mosque burned, overjoyed Israeli settlers sing: “Remember me! Strengthen me! Just this once, God, that I may with one blow take vengeance on the Palestinians (may their progeny be erased!) for my two eyes!” pic.twitter.com/lzpLUfgLpQ
— Carl Zha (@CarlZha) May 11, 2021
Le provocazioni e violenze israeliane, la profanazione terroristica di un luogo sacro come Al Aqsa e la mancanza di qualunque forma di rispetto e umanità da parte degli oppressori sionisti hanno suscitato lo sdegno unanime dei palestinesi. La Resistenza a Gaza ha dato così un ultimatum ai colonizzatori e lanciato alcuni razzi per difendere Gerusalemme e i palestinesi dall’aggressione. La riposte del regime sionista è stata una nuova escalation di violenze. Gli ennesimi bombardamenti su Gaza hanno lasciato sul campo finora almeno trenta civili tra cui dieci bambini.
Qual è invece la narrazione mediatica?
L’atteggiamento della stampa e delle istituzioni borghesi sulle due vicende è esplicativa del tentativo di occultare scientemente quanto sta accadendo, ad esempio per quanto riguarda la Colombia, se non addirittura mistificare spudoratamente i fatti, come sta succedendo per quel che riguarda la Palestina. I gravi fatti colombiani – che certo in un’epoca dove l’informazione viaggia a ritmi elevati è impossibile bypassare – sono stati appena accennati sulla stampa e completamente ignorati dalle istituzioni nazionali dei paesi capitalisti e dalle organizzazioni sovranazionali. Gli stessi, come per esempio il commissario agli affari esteri della UE, Josep Borrell, che si spendevano per i diritti umani dei golpisti boliviani, sotto processo dopo aver perso le elezioni, sulla mattanza da parte del regime di Bogotà non hanno nulla da eccepire.
La repressione delle proteste palestinesi contro le continue provocazioni del governo israeliano e dei coloni è stata invece inizialmente descritta come “scontri tra arabi e polizia”, nel classico tentativo di fornire un quadro del tutto generico di violenze tacciando implicitamente i palestinesi di “fanatismo” e occultando del tutto le ragioni delle proteste. Successivamente quando la situazione è diventata più incandescente per via delle dura repressione poliziesca israeliana (anche questa fatta passare in sordina, o al più come mero ristabilimento dell’ordine) le reazioni palestinesi sono state fatte passare nuovamente come primo atto aggressivo. Una mistificazione della realtà che, utilizzando la solita trita narrazione dei “razzi di Hamas” che terrorizzerebbero i cittadini israeliani, ha portato all’usuale ribaltamento delle responsabilità e dei ruoli fra vittime e carnefici per giustificare il terrorismo sionista nei confronti dei civili palestinesi spacciandolo per “operazioni contro obiettivi militari”.
I media italiani dunque, così come quelli delle altre nazioni occidentali, si sono come sempre distinti e continuano a farlo nel più becero servilismo nei confronti dei sionisti e di tutti i regimi regionali che facciano gli interessi dell’imperialismo nel mondo.
[…] rivista Ottobre parla delle violenze nella Palestina occupata e la Colombia, dove mette a confronto i fatti e la descrizione […]