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Trump e Biden. Meglio il meno peggio, ma meglio?

Biden imperialista

Poco più di una settimana fa, boliviani e cileni davano una prova di reale democrazia, i primi riaffermando la volontà popolare ribaltata dal golpe di un anno fa – attuato congiuntamente dalle forze politiche più reazionarie e dall’esercito, spalleggiati dagli USA e dai loro fantocci dell’OSA –, i secondi votando massicciamente per rimpiazzare la Costituzione lascito dell’epoca di Pinochet. I media occidentali si sono ovviamente distinti per un misto di superficialità – specie riguardo alla Bolivia, negando il colpo di stato e infamando Morales in buona compagnia di certa sinistra – e silenzi alternati a malcelata malinconia, suscitata dalla probabilità che la costituzione cilena, definita dall’Economist “tra le più a favore del settore privato al mondo”, potesse finire nella pattumiera della storia. Dopo tutto, il “cortile di casa” statunitense e i paesi del terzo mondo in generale sono costantemente additati a termine di paragone negativo rispetto alla più “grande” o, a seconda del grado di piaggeria, “antica” democrazia al mondo; persino e anzi, soprattutto, nel momento in cui quest’ultima si esibisce in uno spettacolo i cui toni e modalità richiamano gli strascichi rancorosi di una lite condominiale. Con buona pace di commentatori e politicanti che per decenni hanno magnificato il fair play delle campagne elettorali USA, nonché la certezza e celerità dei risultati garantita dal loro sistema di voto.

Silenzi riguardo a Cile e Bolivia che contrastano – mentre superficialità e piaggeria permangono – con l’ampio dispiegamento di cronache, analisi, opinioni in occasione delle presidenziali statunitensi, alle quali si sommano il rinnovo della Camera e di parte del Senato, l’elezione di governatori e alcuni referendum. È oramai certo che l’incolore Biden giurerà da quarantaseiesimo Presidente degli Stati Uniti, forse non con l’ondata blu profetizzata dai sondaggi, ma comunque incassando un largo vantaggio e classificandosi come il candidato più votato di sempre; ciò non significa che i quattro anni del palazzinaro bancarottiere verranno archiviati come parentesi bislacca e divisiva di un’armonica ed esemplare società democratica, tanto più considerando l’alto numero di voti che ha comunque ottenuto. Non ci si vuole solo riferire ai postumi legali annunciati da Trump e compari, sostenuti da alcuni pezzi grossi dell’apparato repubblicano come Mitch McConnell, con contorno di potenziali scontri provocati dalle bande armate formate dai sostenitori più esagitati, bensì al fatto che il Presidente uscente è espressione di tendenze della società USA non certo inedite, che emergono periodicamente sotto varie mascherature.

Così come i fanatici evangelici, che tanta importanza ebbero nelle due elezioni di Bush figlio, non spuntarono dal nulla nel 2000, i suprematisti bianchi spesso armati fino ai denti, convinti di dover difendere la loro proprietà, poco importa si tratti di una misera veranda o di una microattività imprenditoriale, da una fantomatica coalizione costituita da liberal cosmopoliti, afroamericani,  immigrati, musulmani, movimenti LGBTQ, burocrati federali, ecc., ansiosi d’instaurare il socialismo, non sono certo una novità nel panorama sociale degli Stati Uniti. Altrettanto vale per i  sostenitori, prevalentemente attivi sul web, delle più svariate teorie cospirazioniste, dal banale “deep state” – come se capitalismo e imperialismo USA non agissero perfettamente alla luce del sole, perfino rivendicando i propri crimini o al massimo impacchettandoli di una sempre più scricchiolante retorica filantropica o umanitarista – al più barocco fenomeno Qanon.

La paranoia è infatti un carattere duraturo e ampiamente studiato nella storia USA, ben prima di Trump e McCarthy, tutt’al più amplificato dai social che ipocritamente pretendono di combatterlo con censure occasionali. Ipocritamente, tenendo conto di come le medesime piattaforme abbiano dato ampio spazio ai non meno grotteschi deliri cospirazionisti dei democratici; il Russiagate, ma più in generale la risibile idea che gli Stati Uniti, ossia l’entità che più di ogni altra, almeno dal secondo dopoguerra, ha interferito in ogni modo nella vita politica, sociale ed economica di quelli che di volta in volta ha identificato come alleati (ovvero clienti o vassalli) o nemici, sia vittima d’ingerenze da parte di questi ultimi. Carattere duraturo si diceva a proposito della paranoia, ma anche onnipresente, o meglio bipartisan, e che ha trovato un’espressione particolarmente ripugnante nella sinofobia imperante durante i quattro anni di presidenza Trump, cui hanno contribuito anche i democratici nonché i media, da quelli più esplicitamente reazionari come BreitbartNews sino a Newsweek [1].

Paranoia portato anche di un altro comune denominatore ai due carrozzoni elettorali che si contendono la scena politica USA, vale a dire l’idea secondo la quale vi sarebbe un’essenza, un’anima se si vuole, degli Stati Uniti da recuperare (make america great again o this is the time to heal america) o difendere da minacce sia interne – gli spauracchi già citati per i repubblicani e per Trump e la sua base, questi ultimi due e la polarizzazione di cui sarebbero veicolo, per i democratici – o esterne, sia che si tratti della Russia, della Cina, dell’Iran o di qualsiasi altro spettro per entrambi gli schieramenti. Ovviamente non vi è alcuna anima da recuperare, nessun corpo sano attaccato da patogeni esterni o interni al fine di corromperne l’essenza, ma solo l’esplosione periodica delle contraddizioni di una società strutturalmente classista, razzista, xenofoba, machista, militarista, imperialista, perennemente e unanimemente compiaciuta della propria millantata eccezionalità; la presidenza Trump ha esposto in maniera singolarmente sguaiata alcuni di questi attributi, al suo successore il compito di attenuarli almeno superficialmente, salvaguardando gli altri.

Col che si giunge alle reazioni all’esito delle elezioni. Da un lato, è sciocco biasimare, o peggio irridere, il sollievo e persino la gioia manifestati in comunità e parti della società USA segnatamente afflitte da alcuni delle piaghe più sopra elencate, innegabilmente acuite durante la presidenza Trump, favorita e favorevole a un clima culturale incline a sminuire e disprezzare le sacrosante rivendicazioni di tali soggettività. Dall’altro, l’entusiasmo patetico di alcuni settori della sinistra – si pensi all’inconsistente icona radicale Naomi Klein – la mitomania di certi politicanti nostrani, nutrita da decenni d’imbecillità veltroniana, il cui atteggiarsi fa pensare agli imbucati a un party convinti di esserne l’anima, nonché il pragmatismo sfoderato da soggetti solitamente impegnati a rampognare qualsiasi appello al meno peggio o al male minore, meritano di essere sbeffeggiati, senza troppo curarsi del loro piagnucolare che in tal modo gli si guasta la festa. Quanto ai mezzi d’informazione, per limitarsi all’Italia e lasciando da parte quelli dichiaratamente padronali, si considerino le prime pagine dedicate dal Manifesto alla vittoria di Biden: “Fuga per la vittoria” e “American beauty” titola il fu quotidiano comunista in un accesso di trasporto cinefilo.

Uguale dispregio merita non tanto la destra più reazionaria – che anche in Italia, nonostante goffi tentativi di riverniciatura antimperialista e l’irritante pretesa di dare lezioni alla sinistra su come dovrebbe riconquistare il popolo, è sempre stata uno strumento dell’atlantismo – la quale, coerentemente, piange l’uscita di scena  di un Presidente che sembra condividerne o incarnarne le ossessioni: dall’immigrazione considerata come invasione all’attacco a diritti quali l’aborto, pesantemente limitato in alcuni stati repubblicani, sino alle farneticazioni sul “genocidio dei bianchi” [2]. Semmai è esecrabile quella parte di sinistra e comunisti crogiolatasi nell’illusione di un Trump isolazionista, se non addirittura perturbatore del corso imperialista statunitense, sulla scorta di una lettura fuorviante e convergente con l’immagine, spacciata dai media monopolisti, di una presidenza anomala; immagine basata esclusivamente su comportamenti esteriori o dichiarazioni fortuite dell’inquilino della Casa bianca, ma che non tiene conto di fatti tutt’altro che marginali.

Il falso isolazionista

Innanzitutto, l’influenza di un’importante istituzione neocon, l’Heritage Foundation, sull’amministrazione Trump, il quale si vantava esplicitamente nel 2018 di averne seguito le raccomandazioni come neanche Reagan, trovando convalida nel plauso dello stesso think tank. Quest’ultimo, tra le sue indicazioni seguite dal Presidente, annoverava un budget che “richiede un aumento di 54 miliardi di dollari delle spese militari così da incrementare capacità e prontezza delle forze armate americane”; spese militari che nel 2019 – sebbene in diminuzione rispetto al picco toccato nel 2010, seguito però da sette anni di declino – hanno registrato un aumento del 5,3% rispetto all’anno precedente attestandosi a 732 miliardi di dollari, ovvero circa il 38% di quelle globali.

Venendo ai rapporti con la Russia, alla faccia dei vaneggiamenti su un Presidente marionetta di Putin, l’amministrazione Trump ha espulso sessanta diplomatici russi e chiuso il Consolato a Seattle, nonché nominato ambasciatore in un paese chiave come la Germania Richard  Grenell, un noto falco russofobo; inoltre, e ancor più significativo, ha approvato la fornitura di armamenti letali all’Ucraina, culmine di un’aggressività nei confronti di Mosca ravvisata persino dal Washington Post, voce non certo prona rispetto alla presidenza Trump [3]. Trump che, ritornando all’America Latina evocata all’inizio, può esibire un curriculum imperialista inequivocabile: dal sostegno alla ventennale strategia golpista dell’opposizione venezuelana – con la nomina di un autentico criminale come Elliot Abrams a rappresentante speciale per Iran  e Venezuela e lo strangolamento economico del paese – sino alle politiche di apertura agli interessi commerciali Usa del Brasile di Bolsonaro a scapito del MERCOSUR, passando per l’invio di truppe in Colombia col pretesto della lotta al narcotraffico, i tentativi da parte di Pompeo di sabotare i rapporti tra Cina e paesi ricchi di risorse come Suriname e Guyana e il già citato colpo di stato in Bolivia [4].

Quanto al Medio Oriente, oltre al supporto alle pretese israeliane più indecenti – il riconoscimento di Gerusalemme capitale e della sovranità sulle Alture del Golan, solo per citare degli esempi eclatanti – vi è l’omicidio extragiudiziario del generale iraniano Qasem Soleimani, nel contesto di una politica contro l’Iran definita di “massima pressione”, ma che è stata  meno eufemisticamente identificata come “assediare e affamare”. Oltre a ciò, Trump ha posto il veto a una risoluzione del Congresso mirante a fermare l’aggressione allo Yemen, attuata tramite l’assistenza militare ai clienti sauditi, e dispiegato nella regione mediorientale, a partire dal maggio 2019, ulteriori 14.000 truppe; infine, Trump non si è certo sottratto alla consuetudine dei suoi predecessori di bombardare l’intera regione: 7.423 tra bombe e missili nel 2019 in Afghanistan, mentre tra Siria e Iraq nel 2017 sono state quasi 40.000 [5].

L’usato sicuro imperialista

Questo il sintetico e sicuramente incompleto consuntivo dei quattro anni di Trump alla Casa bianca, è tempo dunque di rivolgere lo sguardo a quanto si preannuncia con il suo successore; se infatti Obama, al suo primo mandato, era un personaggio relativamente nuovo, Biden ha una carriera da funzionario dell’imperialismo pluridecennale. Già dal 1998 il Presidente eletto invocava un’invasione dell’Iraq, contribuendo a delegittimare il lavoro di disarmo degli ispettori ONU per poi, nell’ottobre 2002 – in qualità di presidente della Commissione affari esteri del Senato –, propalare ancora la menzogna delle armi di distruzione di massa; particolarmente odioso, per tanto, il suo tentativo di giustificare il voto a favore dell’aggressione all’Iraq come frutto di un inganno ordito dall’amministrazione Bush: “è stato un errore […] ho imparato molto, come tutti, su quello che ci era stato detto”. Riguardo a Israele, Biden ha sempre espresso non solo sostegno incondizionato, ma anche una lucida consapevolezza del suo ruolo quale bastione dell’imperialismo USA in Medio Oriente: “il miglior investimento da tre miliardi di dollari” affermava in un discorso intriso di retorica antiaraba del 1986, così proseguendo, “non ci fosse Israele, gli Stati Uniti dovrebbero inventarlo per proteggere i nostri interessi nella regione”; dopo tutto, l’amministrazione Obama/Biden è responsabile di un accordo, raggiunto nel 2016, che garantisce all’entità sionista aiuti militari per ben 38 miliardi di dollari [6].

Sull’America Latina, il piano pubblicato sul sito della campagna presidenziale Biden/Harris – oltre a generiche evocazioni dell’amicizia tra Stati Uniti e America Centrale, e annunci di ribaltamento delle “draconiane politiche sull’immigrazione dell’amministrazione Trump”, sorvolando sul fatto che alcune sono state anticipate da quella Obama – elenca aiuti economici in cambio di “significative, concrete e verificabili riforme” il cui contenuto non e difficile da immaginare dato che, poco più sopra, si fa riferimento alla “mobilitazione di investimenti privati”. In merito al Venezuela, e alle sanzioni che ne stanno devastando l’economia, così si esprime un collaboratore della campagna elettorale di Biden, Leopoldo Martinez: “non miriamo a smantellare la politica delle sanzioni, ma ad applicarle in modo intelligente […] con specifici obiettivi […] principalmente libere, corrette e credibili elezioni”; si direbbe quasi una risposta alle lamentele sulla “dottrina dell’imperialismo incompetente” di Trump e Rubio avanzate, in occasione dell’elezione di Luis Arce in Bolivia, da un ex consigliere di Obama [7].

Rispetto all’Iran, Biden propone “un modo intelligente di essere duri” e assicura “continueremo a usare sanzioni mirate”, rispolverando la retorica che edulcora quello che è un vero e proprio strumento della guerra imperialista; quanto alla Siria, con una faccia di bronzo non indifferente, un consigliere di Biden ha affermato “non ci può essere […] supporto per la ricostruzione della Siria se non avranno luogo riforme politiche”, come se l’amministrazione Obama, spalleggiando i “ribelli”, non avesse contribuito alla distruzione del paese. In merito alla Russia, il presidente eletto si è nel 2018 dilungato in un articolo dai toni paranoici e bellicosi in cui – oltre alla solita tiritera su presunti tentativi di Mosca di “sovvertire la democrazia in Europa occidentale e Stati Uniti” – invoca una postura più aggressiva sia militarmente che economicamente.

Anche alla Cina Biden non ha risparmiato le accuse infondate d’interferenza nelle elezioni, inoltre una delle papabili a Segretaria alla Difesa della futura amministrazione, Michele Flournoy – ex consulente nell’industria degli armamenti – ha sostenuto che la capacità militare degli USA nella regione dovrebbe essere tale da “minacciare credibilmente di affondare le navi militari, i sottomarini e le imbarcazioni civili cinesi nel Mar cinese meridionale in 72 ore”. In fin dei conti ciò è del tutto in linea con la politica della presidenza Obama, fautrice di una “strategia mirante a rafforzare i legami nell’ambito della difesa con i paesi della regione, espandendovi la presenza navale USA”; quanto alla politica commerciale, il protezionismo dell’era Trump, particolarmente rivolto contro la Cina – in realtà già presa di mira dai numerosi provvedimenti restrittivi di Obama – non verrà certo accantonato il 20 gennaio 2021 [8].

Alla luce tanto della passata azione di Biden e di ciò che si prospetta per la sua presidenza, tanto nelle sue dichiarazioni che in quelle dei suoi collaboratori, è lecito abbandonarsi a un sia pur circospetto ottimismo e celebrare il ritorno del meno peggio? No, al massimo si può e si deve dire, riprendendo le efficaci parole di un economista italiano, che i democratici “non sono poi migliori dei secondi [i repubblicani], ovvero sono solo impercettibilmente migliori, non che i secondi sono da preferire”, specie se tale preferenza serve  “non per criticare la politica di potenza statunitense, ma solo per mascherare le proprie simpatie conservatrici” [9]. Una sinistra minimamente decente e i comunisti – senza sottovalutare la specificità e gravità dell’impatto della presidenza Trump su ampie fasce di oppressi, sia negli Stati Uniti che a livello globale – non dovrebbero avere alcun motivo per illudersi circa la prossima amministrazione.


1) https://twitter.com/TheEconomist/status/1320196125694042112; https://foreignpolicy.com/2020/11/03/10-problematic-ways-in-which-u-s-voting-differs-from-the-worlds/https://harpers.org/archive/1964/11/the-paranoid-style-in-american-politics/; https://gordondfraser.files.wordpress.com/2019/01/final-version_conspiracy_pornography_democracy.pdf; https://www.cisa.gov/news/2020/11/04/statement-cisa-director-krebs-following-final-day-voting; https://www.newsweek.com/2020/11/13/exclusive-600-us-groups-linked-chinese-communist-party-influence-effort-ambition-beyond-1541624.html.

2) https://twitter.com/NaomiAKlein/status/1325116711075418112; https://twitter.com/matteorenzi/status/1324678821530996736; https://ibb.co/Cv8qvfb; https://ibb.co/G0XqPfX; Davide Conti, L’anima nera della Repubblica. Storia del Msi, Laterza, 2013, pp. VI, VIII, 51-56, 60-61, 116, 131, 140, 171-172, 181; https://www.ilpost.it/2019/06/02/leggi-contro-aborto-stati-uniti/; https://voxnews.info/2018/08/24/trump-contro-il-genocidio-dei-bianchi-in-sudafrica/.

3) https://twitter.com/realDonaldTrump/status/968818810005450752; https://www.heritage.org/impact/trump-administration-embraces-heritage-foundation-policy-recommendations; https://www.sipri.org/sites/default/files/2020-04/fs_2020_04_milex_0_0.pdf; https://edition.cnn.com/2018/03/26/politics/us-expel-russian-diplomats/index.html; https://www.nytimes.com/roomfordebate/2014/02/25/how-the-west-can-shape-ukraine/us-diplomatic-niceties-havent-worked-with-russia; https://www.nbcnews.com/news/us-news/u-s-officials-say-lethal-weapons-headed-ukraine-n832311; https://www.washingtonpost.com/world/national-security/how-trump-got-toyes-on-the-biggest-purge-of-russian-spies-in-us-history/2018/03/29/3e056a28-337b-11e8-8abc-22a366b72f2d_story.html.

4) https://www.state.gov/venezuela-related-sanctions/; https://lvsl.fr/bolsonaro-le-grand-tournant-pro-americain-du-bresil/https://www.telesurtv.net/news/colombia-recibe-tropas-eeuu-narcotrafico-militares-20200528-0014.html; http://www.jamaicaobserver.com/latestnews/Pompeo_pitches_US_business_over_China_in_Suriname,_Guyana.

5) https://www.irishexaminer.com/world/arid-30817874.html; https://www.aljazeera.com/news/2019/03/25/trump-formally-recognises-israeli-sovereignty-over-golan-heights/; https://responsiblestatecraft.org/2020/10/08/the-undeniable-cruelty-of-trumps-maximum-pressure-on-iran/; https://apnews.com/article/1b17cee217b344d8a3a03642139fb606; https://www.politifact.com/factchecks/2019/oct/22/brett-mcgurk/mcgurk-right-trump-has-sent-14000-troops-middle-ea/; https://www.afcent.af.mil/Portals/82/Airpower%20Summaries/Feb%202020%20Airpower%20Summary%20FINAL.pdf?ver=2020-03-12-021511-537.

6) http://emperors-clothes.com/analysis/ritter-nuke-sen.htm; https://twitter.com/DabSquad_Slank/status/1324928665113726976; https://www.nbcnews.com/id/wbna18381961; https://www.youtube.com/watch?v=FYLNCcLfIkM&feature=emb_title; https://foreignpolicy.com/2016/09/13/netanyahu-backs-down-in-u-s-israel-military-aid-deal/.

7) https://joebiden.com/centralamerica/; https://www.snopes.com/fact-check/obama-build-cages-immigrants/; https://observer.com/2017/01/barack-obama-policies-foundation-donald-trump-muslim-ban/; https://www.reuters.com/article/usa-election-biden-oil-analysis-int-idUSKBN2762RG; https://twitter.com/brhodes/status/1318180765000060928.

8) https://edition.cnn.com/2020/09/13/opinions/smarter-way-to-be-tough-on-iran-joe-biden/index.html; https://syrianobserver.com/EN/news/61629/sources-close-to-biden-no-reconstruction-in-syria-without-political-reform.html; https://www.nytimes.com/2017/08/02/world/middleeast/cia-syria-rebel-arm-train-trump.html; https://www.foreignaffairs.com/articles/russia-fsu/2017-12-05/how-stand-kremlin; https://www.youtube.com/watch?v=ef7XiJ4uNCo; https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2020-06-18/how-prevent-war-asia; Robert S. Ross, The Problem With the Pivot: Obama’s New Asia Policy is Unnecessary and Counterproductive, in Foreign Affairs, Vol. 19, N. 6, novembre/dicembre 2012, p. 72; https://www.fdiintelligence.com/article/78835; https://obamawhitehouse.archives.gov/sites/whitehouse.gov/files/documents/The-Obama-Administration-Trade-Enforcement-Record-2016-FINAL.pdf; https://www.youtube.com/watch?v=S_NQ9knnRPc&feature=emb_logo.

9) https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10221701983611262&id=1605273407

One Reply to “Trump e Biden. Meglio il meno peggio, ma meglio?”

  1. Le galline ritornano all’ovile di Washington – Ottobre says: 10 Gennaio 2021 at 9:46

    […] ultimi anni a legittimare gli argomenti fantoccio della destra reazionaria, culminata nell’illusione di una presunta minore aggressività imperialista della presidenza Trump. Tanto più che assecondare certe tendenze, anche quando condivise da settori della classe […]

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