Il giorno seguente alla scomparsa di Joe Slovo, avvenuta il 6 gennaio del 1995, il New York Times pubblicava un articolo sulla figura dell’ex segretario generale del Partito comunista sudafricano (SACP), nonché dirigente dell’African National Congress (ANC) e del suo braccio armato Umkhonto we Sizwe (MK, Spear of the Nation, ovvero “Lancia della nazione”); l’articolo, per quanto si affannasse a darne un ritratto equilibrato, già dal titolo rivelava le priorità della stampa USA nel ricostruire le vicende sudafricane: “Joe Slovo, lo stalinista anti-apartheid è scomparso a 68 anni”. Il testo, opera di un noto giornalista, in seguito distintosi per il suo rumoroso supporto all’aggressione statunitense all’Iraq nel 2003, è ovviamente infarcito di riferimenti ai dubbi di Slovo e di sua moglie, Ruth First – citata guarda caso solo a tal proposito, a discapito dell’impegno anti-apartheid che le sarebbe costato la vita – circa l’Unione Sovietica. Dopo tutto, erano anni in cui Nelson Mandela, ogni qual volta metteva piede negli Stati Uniti, veniva tormentato da insulse rimostranze riguardo alle sue frequentazioni poco gradite a Washington; rimostranze alle quali rispondeva con ammirevole impassibilità, come quando al lacchè di Reagan Kenneth Adelman, il quale gli contestava il suo plauso per Arafat, Gheddafi e Castro, replicava che coloro che gli USA identificavano come nemici non erano necessariamente tali per la sua causa.
In seguito, nei media occidentali, sarebbe prevalsa la tendenza a edulcorare la storia della lotta all’apartheid, presentandola – analogamente al caso di quella contro la segregazione e per i diritti civili negli Stati Uniti – come una sorta di armoniosa marcia verso la libertà frutto di una generica non-violenza; la sua incarnazione, quello stesso Mandela non molti anni addietro insolentito a causa degli alleati ritenuti impresentabili, ora ridotto alla patetica figura di nonno saggio e benevolo da riverire e col quale farsi ritrarre in foto. Leader dell’ANC annoverato, è sempre bene rammentarlo, insieme ad altri membri della stessa organizzazione, nella grottesca “terror watch list” degli USA sino a pochi anni or sono; ma anche additato da certa stampa reazionaria in merito a una sua effettiva appartenenza o meno al Partito comunista sudafricano, dibattito quanto mai sterile considerati gli stretti rapporti tra quest’ultimo e l’ANC.
Questo scritto, per tanto, vuole essere – sulla scorta di un precedente articolo sui comunisti e la liberazione degli afroamericani – una rievocazione, senza alcuna pretesa di esaustività od oggettività, di alcune vicende e figure del Partito comunista sudafricano, nel contesto della battaglia contro l’apartheid, non ignorandone contraddizioni e ambiguità, specie agli esordi; senza trascurare il ruolo che vi ebbero la lotta armata e l’internazionalismo, ovvero l’Unione Sovietica e la Cina, ma anche i movimenti e governi anticoloniali africani e Cuba [1].
ALLE ORIGINI DELL’APARTHEID: COLONIALISMO, SCHIAVISMO E SEGREGAZIONE
Pur essendo nota a portoghesi e inglesi, l’area del Capo di Buona Speranza venne colonizzata innanzitutto dagli olandesi, nell’ambito delle attività della Compagnia olandese delle Indie orientali, consistenti nel procurare schiavi, materie prime e altri beni a quella che, nella prima metà del XVII secolo, era la potenza marittima europea dominante nell’Asia sudorientale; e proprio sulla via dei possedimenti orientali olandesi si trovava il Capo di Buona Speranza, colonizzato a partire dal 1652 per servire da avamposto per i traffici della Compagnia, ma soprattutto come base di una colonia fondata sullo sfruttamento degli schiavi. Schiavi prevalentemente importati da Indonesia, India, Ceylon, Madagascar e Mozambico per lavorare al servizio degli insediamenti boeri, i quali si sarebbero progressivamente espansi ben oltre il Capo, a nord e a est, sottraendo terre e bestiame alle comunità autoctone – prevalentemente costituite da cacciatori-raccoglitori o pastori – le quali andavano incontro a un futuro di servitù o clientela nei confronti dei coloni bianchi, decimazione a seguito della violenza di questi ultimi e del vaiolo, nonché segregazione al pari degli schiavi importati.
Quando nel 1795 gli inglesi presero possesso della Colonia del Capo trovarono una società in cui i coloni bianchi erano uniti nello sfruttamento della mano d’opera fornita da schiavi e popolazioni native, ma divisi tra gli interessi di mercanti e agricoltori nell’area del Capo e i trekboer – allevatori boeri immigrati – in continua espansione a nord e a est a spese delle comunità autoctone; recuperato il controllo della Colonia nel 1806, dopo la breve riassegnazione agli olandesi con la Repubblica Batava, i britannici diedero a loro volta inizio all’espulsione e devastazione delle popolazioni indigene e all’insediamento di coloni. Con gli inglesi sarebbe giunta l’abolizione della tratta degli schiavi prima e l’emancipazione dopo, tramite passaggi intermedi per svariate forme di lavoro servile sino a quello salariato, senza che ciò diminuisse sostanzialmente l’oppressione della popolazione nera. L’espansione dei britannici si sarebbe scontrata con l’ostilità dei boeri a farsi annettere e le rivolte degli africani, miranti a recuperare le terre loro sottratte oltreché a rigettare le pretese “civilizzatrici” dell’imperialismo britannico. Intanto, nel corso della seconda metà del XIX secolo si consolidavano le entità inglesi, ossia la Colonia del Capo e il Natal, e boere, ovvero il Transvaal e lo Stato Libero dell’Orange, le quali – caratterizzate tutte dalla supremazia bianca e superate le ostilità sfociate nelle due Guerre anglo-boere – avrebbero formato nel 1910 l’Unione Sudafricana.
Nel frattempo, allo sviluppo dell’industria mineraria, in particolare diamantifera e aurifera, si accompagnava una strutturazione della mano d’opera industriale su basi razziali, in cui i lavoratori bianchi godevano di condizioni privilegiate rispetto a quelli neri, sottoposti a forme di segregazione in ogni ambito della vita; un sistema che garantiva enormi profitti non solo ai capitalisti locali, ma anche agli investitori residenti nella metropoli imperialista, Europa e Stati Uniti. La stessa popolazione bianca si differenziava tra Afrikaners, discendenti dei coloni boeri, prevalentemente stanziati in aree rurali, e immigrati del XIX secolo, in larga parte inglesi, ai quali si aggiungevano tedeschi ed esteuropei, in buona parte ebrei; oltre alle differenze linguistiche e religiose tra i due gruppi vi erano le disuguaglianze economico-sociali trasversali a essi, in fatto di proprietà, reddito, qualifiche, istruzione e dunque classe. Anche l’altra parte della popolazione era assai diversificata, non solo per origine – comprendendo discendenti dei nativi e degli schiavi importati da Indonesia, Madagascar e altre parti dell’Africa – ma anche per occupazione, religione e, nel caso dei neri autoctoni, maggiore o minore attaccamento alle forme tradizionali di società superficialmente identificate dai bianchi come “tribali”; infine, va citata la presenza di una nutrita comunità indiana frutto, soprattutto nel Natal, dell’immigrazione di lavoratori favorita dal governo. Parallelamente alla crescita dell’industria mineraria si completava la soppressione, con metodi più o meno violenti, delle rimanenti comunità native e dei loro tentativi di ribellione – in particolare la sollevazione degli Zulu nel 1906 – comunità già devastate da oltre due secoli di contatti coi colonizzatori bianchi [2].
NASCITA DELL’AFRICAN NATIONAL CONGRESS E DEL PARTITO COMUNISTA
La costituzione dell’Unione Sudafricana come dominion dell’Impero britannico, frutto di una convenzione riunitasi a partire dal 1908 a Durban – formata da soli uomini, tutti bianchi – creava uno stato unitario sul modello britannico, di cui le quattro colonie costituivano le province, con una camera bassa, un senato e un esecutivo responsabile nei confronti di una maggioranza nella prima; in tutte le quattro entità fondatrici i diritti di voto ed eleggibilità erano pesantemente limitati (Natal e Colonia del Capo) o del tutto interdetti (Transvaal e Stato Libero dell’Orange) per chi non era bianco, il che non cambiò di fatto nell’Unione. Proprio nel contesto di tali discriminazioni e per opporsi a esse nasceva nel 1912 il South African Native National Congress, antesignano dell’ANC, i cui dirigenti – al pari di altre organizzazioni come l’African Political Organization – avevano una formazione occidentale come avvocati, religiosi o pubblicisti, e perseguivano una politica riformista mirante a convincere i bianchi a venire incontro alle loro rimostranze, ottenendo ben poco e fallendo nel mobilitare le masse nere. Più radicale era l’attività dell’Industrial and Commercial Workers Union (ICU), fondata dal nero Clements Kadalie – originario dell’attuale Malawi, all’epoca Nyasaland – che fu protagonista tra il 1919 e i primi anni Venti di scioperi di una certa importanza, scontrandosi con la dura repressione delle autorità e il crumiraggio dei lavoratori bianchi.
Fra i primi movimenti a richiamarsi esplicitamente al marxismo vanno invece citate l’International Socialist League (ISL-Jhb), formata a Johannesburg nel 1915 in seguito a una scissione circa la partecipazione alla Prima guerra mondiale avvenuta tra le fila del South African Labour Party (SALP), fautrice contrariamente a quest’ultimo, fermamente schierato a difesa dei privilegi dei lavoratori bianchi, della mobilitazione su basi di classe anziché razziali. Su premesse simili, ma a Città del Capo, da una scissione della Social Democratic Federation (SDF) nasceva l’Industrial Socialist League (ISL-CT) che, animata prevalentemente da militanti di origini ebraiche, praticava una sorta di sindacalismo rivoluzionario sulla scia dell’Industrial Workers of the World (IWW) e accolse e sostenne con entusiasmo – al pari dell’ISL-Jhb – la Rivoluzione d’Ottobre. Entrambe le organizzazioni, tuttavia, per quanto auspicassero la solidarietà tra lavoratori neri e bianchi, affidavano a questi ultimi il ruolo guida. A partire dal 1920 le due sigle avrebbero dato vita a diversi e concorrenti tentativi di affiliarsi all’Internazionale comunista (Comintern), in particolare l’ISL-CT e una sua branca di Johannesburg, la Communist League, si fondevano in un prematuro Communist party of South Africa. Infine, il 30 luglio del 1921, con il convergere dell’ISL-Jhb e di altre formazioni, una manciata di delegati – tutti bianchi e anglofoni – riunitisi a Città del Capo fondavano il Communist Party of South Africa (CPSA); l’influenza dell’ISL-Jhb nel neonato partito era evidente nelle nomine, rispettivamente a segretario e tesoriere, di due suoi esponenti, W.H. Andrews e S.P. Bunting.
Il Manifesto approvato in quell’occasione faceva appello a “tutti i lavoratori sudafricani […] bianchi e neri, a unirsi [al partito] nel promuovere il rovesciamento del capitalismo” e, tuttavia, per diversi anni a venire la militanza dei neri nel partito sarebbe stata oggetto di aspre discussioni; accompagnate per di più da scelte sciagurate, come l’appoggio e partecipazione, sia pur marginale, alla cosiddetta Rand Revolt del 1922, uno sciopero di minatori bianchi rapidamente trasformatosi in insurrezione armata nell’area mineraria del Witwatersrand. Innescata alla fine del 1921 dalla decisione della Chambers of Mine – assunta nel contesto delle difficoltà economiche seguite al primo conflitto mondiale – di porre fine agli accordi che garantivano i privilegi dei lavoratori bianchi, la sollevazione, unendo confusamente istanze socialiste e razziste cavalcate dal National Party (NP), portavoce del rancore afrikaner, sarebbe sfociata, prima di venire sedata, in veri e propri pogrom contro i neri. Tra le conseguenze della vicenda, anche lo scatenarsi della paranoia anticomunista, veicolata da polizia, esercito, stampa e governo, col primo ministro Jan Smuts che additava i razzisti Labour e National Party come coperture dei comunisti, dando adito all’infondato cospirazionismo che vedeva la ribellione come orchestrata da Mosca; una lezione anche per l’oggi su quanto sia controproducente, oltreché esecrabile sul piano dei principi, l’ambiguità anche solo tattica su questioni come quella del razzismo [3].
IL PARTITO COMUNISTA SUDAFRICANO E LA TERZA INTERNAZIONALE
Il III Congresso del partito comunista, nel 1924, fu animato dal dibattito tra coloro che continuavano ad attribuire ai lavoratori bianchi un ruolo preminente – innanzitutto W.H. Andrews – e un’ala, specie giovani militanti come Eddie Roux, convinta dell’importanza strategica dell’organizzazione di quelli neri; questo secondo orientamento si impose con l’ascesa ai vertici di S.P.Bunting, il quale insieme a un altro ex membro dell’ISL-Jhb, David Ivon Jones, ne era fautore già da alcuni anni anche presso il Comintern. Tra i primi neri a unirsi alle fila comuniste, T.W. Thibedi, abile organizzatore ed educatore, avrebbe formato numerosi futuri militanti e quadri neri, Albert Nzula, John B. Markx, Moses Kotane, Edwin Thabo Mofutsanyana, tutti e quattro unitisi al partito tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta in seguito ne sarebbero divenuti segretari, John Gomas, Johannes Nkosi e James La Guma. Oltre a condividere quasi tutti origini proletarie o contadine, alcuni possedevano un’istruzione formale come insegnanti, altri avevano alternato a svariati lavori – dal minatore al sarto, passando per il lavoro domestico – la formazione da autodidatti e nelle scuole di partito, nonché l’attività sindacale e politica. Intanto, si concludeva l’effimera collaborazione intentata con l’ICU al fine di sfruttarne il potenziale di massa tra i neri, collaborazione sancita dalla presenza nel suo Consiglio nazionale di alcuni membri del CPSA, tra cui La Guma e Gomas, espulsi nel 1926 dall’organizzazione di Kadalie a seguito della virata anticomunista di quest’ultimo. Al 1928 il partito poteva vantare che un’ampia percentuale dei poco più di 1700 iscritti era composta da militanti neri, inoltre la sua stampa iniziava a includere pagine in lingue africane.
Nel 1927, a Bruxelles, nel corso della Conferenza mondiale anticoloniale veniva lanciata la “Lega contro l’imperialismo” (LAI) e, per il Sudafrica, partecipavano J.T. Gumede dell’African National Congress – denominazione assunta dal South African Native National Congress a partire dal 1923 – e James La Guma del CPSA; i due ebbero modo di recarsi in Unione Sovietica dove La Guma entrò in contatto con i vertici della III Internazionale, occasione nella quale emerse la cosiddetta tesi della repubblica nativa. Similmente a quella sull’autodeterminazione per gli afroamericani negli stati USA in cui costituivano la maggioranza, quella della Repubblica nativa invocava – nella risoluzione sulla questione sudafricana adottata dopo il VI Congresso del Comintern nel 1928 – una “Repubblica sudafricana nativa indipendente, come tappa verso una repubblica operaia e contadina con pieni e uguali diritti per tutte le razze”. Tale parola d’ordine incontrava l’opposizione di parte del CPSA, in particolare Bunting e Thibedi: alcuni temevano potesse alienare al partito le simpatie dei lavoratori bianchi e che – nelle parole di Roux, anche egli tra i contrari – presupponesse “la presenza di una borghesia nativa e l’assenza di un’ampia classe di proletari bianchi in grado di allearsi coi nativi nella loro lotta”, o ancora, la ritenevano troppo evocativa della “Repubblica nera” auspicata dal panafricanista Marcus Garvey, altri invece la consideravano solo intempestiva.
A ogni modo, la linea affermatasi al VI Congresso del Comintern venne infine accolta dal partito durante la sua VII conferenza annuale, tenutasi dal dicembre 1928 al gennaio 1929, e implementata aumentando il numero di militanti neri tra i suoi ranghi e ai vertici, sino alla nomina di Albert Nzula a segretario nel 1929. Ciò nonostante, nel corso degli anni Trenta i conflitti interni al CPSA e tra una parte di quest’ultimo e Mosca non si attenuarono, portando all’espulsione di Bunting, e alla breve ascesa di Lazar Bach, comunista di origini lettoni inizialmente appoggiato dal Comintern, fautore della rimozione di elementi considerati di destra, per lo più critici della repubblica nativa, ma che finì col colpire anche suoi promotori come La Guma. Anche i rapporti con l’ANC – rafforzatisi a partire dal 1927 con la guida di Gumede, favorevolmente impressionato dall’URSS e dall’apertura del CPSA nei confronti dei neri – si deterioravano; da una parte, nel 1930, l’emergere ai suoi vertici di una fazione conservatrice portava all’estromissione di Gumede, dall’altra gli attacchi da parte comunista, oltre a mettere in difficoltà coloro che militavano in entrambe le organizzazioni, come Moses Kotane, avrebbero reso ardua la collaborazione lungo tutto il decennio. Decennio durante il quale il CPSA non mancò comunque di lottare per i diritti dei lavoratori neri, in particolare contro le pass law – una serie di norme introdotte sin dal XVIII secolo – che limitavano spostamenti e residenza della popolazione nera, rafforzando inoltre il controllo esercitato dal padronato bianco; proprio durante una campagna anti-pass a Durban, il 16 dicembre 1930, venne assassinato dalla polizia Johannes Nkosi, uno dei primi leader neri del partito [4].
RIORGANIZZAZIONE, MESSA AL BANDO E RICOSTRUZIONE DEL PARTITO
Il passaggio dagli anni Trenta ai Quaranta fu segnato dagli sforzi per riorganizzare il partito, nei quali svolse un ruolo di primo piano Moses Kotane, segretario dal 1939, gestendo il CPSA durante la Seconda guerra mondiale e attivandosi al fine di ripristinare buoni rapporti con l’ANC, nel quale si facevano strada nuove leve come il giovane Mandela. Anni importanti anche per l’affermarsi di figure come Hilda Watts, eletta al Comitato centrale al pari di Betty Sacks già redattrice del giornale di partito The Guardian, Rachel (“Ray”) Alexander e, tra le militanti nere, la sindacalista Rahima Ally, Dora Tamana e Josie Palmer. Tutte impegnate, oltreché nell’attività di partito, in quella sindacale su basi multirazziali – in particolare con la Food and Canning Workers’ Union (FCWU) fondata dalla Alexander nel 1941 – e nella lotta alla segregazione, partecipando ad esempio alle già citate campagne anti-pass, nonché cooperando con altre organizzazioni femminili progressiste e dunque contribuendo alla nascita di movimenti più ampi, come la Federation of South African Women (FSAW) fondata nel 1954.
Il 1948, intanto, con la vittoria elettorale del National Party (di esplicite simpatie nazi-fasciste), avviava quasi mezzo secolo d’intransigente riaffermazione della supremazia bianca, col consolidamento delle già drastiche forme di segregazione esistenti: il Population Registration Act del 1950 consentiva la categorizzazione razziale delle persone in bianchi, coloured, indiani e neri, il Proibition of Mixed Marriages Act e l’Immorality Act (1949-50) innalzavano la barriera del colore per le relazioni interpersonali. All’eliminazione di fatto del diritto di voto ed eleggibilità si aggiungeva la trasformazione delle riserve, in cui languiva parte della popolazione nera, in cosiddette Homeland designate come aree indipendenti di uno sviluppo separato, in realtà poste sotto tutela dei bianchi e destinate a sottosviluppo e sfruttamento.
Nel 1950, un CPSA già travolto dalla repressione a causa del ruolo svolto tramite l’African Mineworkers’ Union, guidata dall’esponente comunista, nonché membro dell’ANC, J.B.Marks, nel grande sciopero dei minatori africani del 1946 – mobilitando nel Witwatersrand, diversamente dal 1922, migliaia di lavoratori neri – veniva messo al bando in base al Supression of Communism Act; dopo lo sciopero del 1° maggio indetto dal partito e represso nel sangue, con 18 scioperanti uccisi, i vertici si pronunciavano per lo scioglimento ritenendo non vi fossero le condizioni per entrare in clandestinità. L’ANC e il South African Indian Congress (SAIC), risolutamente contrari al bando, consentirono a numerosi militanti non bianchi del CPSA di proseguire l’attività politica legale; ANC che si stava radicalizzando, superando le diffidenze di alcuni membri, come lo stesso Mandela, riguardo a comunisti e marxismo, optando per la disobbedienza civile e dando in tal senso prova della propria capacità di mobilitazione nella “Campagna di Sfida”, organizzata nel 1952 insieme al SAIC. Nel mentre, nonostante l’iniziale esclusione della clandestinità, alcuni militanti comunisti si adoperavano per ricostituire il partito: oltre a Kotane, tra di loro vi erano uomini e donne che avrebbero svolto un ruolo decisivo nella lotta all’apartheid, come Joe Slovo, Ruth First e Bram Fischer; frutto di tale attività fu la costituzione, nel 1953, del South African Communist Party (SACP) con Yusuf Dadoo – figlio d’immigrati indiani, membro del partito dal 1939 con solidi rapporti internazionali, in particolare con l’Indian National Congress (INC) – come presidente e Kotane segretario.
1953 durante il quale veniva fondata, anche grazie all’iniziativa di militanti del SACP come lo scrittore Alex La Guma (figlio di James), la Coloured People’s Organization (SACPO), in seguito rinominata Coloured People’s Congress, al fine di mobilitare i non bianchi contro l’erosione del loro diritto di voto; lo stesso anno si formava il Congress of Democrats (COD), ristretto ma influente gruppo costituito prevalentemente da comunisti bianchi. In ambito sindacale, la legislazione anticomunista e inclinazioni conservatrici circa l’organizzazione su base non razziale, portavano nel 1954 all’uscita dei sindacati bianchi dal South African Trades and Labour Council (SATLC); gli altri organismi componenti quest’ultimo, misti ed egemonizzati dal SACP, costituivano l’anno successivo il South African Congress of Trade Unions (SACTU). Le organizzazioni citate, insieme all’ANC e al SAIC, si riunivano nel 1955 nel Congress of the People, dando vita alla Congress Alliance e adottando quale manifesto programmatico la Freedom Charter, un documento inevitabilmente generico, ma comunque rilevante come frutto della cooperazione tra forze eterogenee. Vi si reclamava, ovviamente, l’eliminazione di ogni “legge e pratica di apartheid”, eguali diritti in fatto di voto ed eleggibilità a “prescindere da razza, colore e sesso” e, tra le altre cose: il “trasferimento al popolo nel suo complesso delle ricchezze minerarie, delle banche e dell’industria”, la fine delle “restrizioni su base razziale nella proprietà della terra” e la sua “redistribuzione” tra coloro che la lavoravano, “un’istruzione gratuita, obbligatoria e universale”, politiche abitative atte a garantire il diritto alla casa e “cure gratuite”.
Tutto ciò avrebbe condotto nel 1956 a più di un centinaio di arresti e a un processo per tradimento – conclusosi nel 1961 col proscioglimento degli imputati – nei confronti, oltre che di Mandela di altri esponenti dell’ANC e del SACP, come Lilian Ngoyi, Walter Sisulu, Moses Kotane, Joe Slovo e Ruth First; nel corso del dibattimento l’accusa ebbe a definire comunista la Freedom Charter, imputando agli accusati di cospirare per rovesciare il governo sudafricano e fomentare il conflitto tra bianchi e neri [5].
IL PASSAGGIO ALLA LOTTA ARMATA, IL SOSTEGNO DI URSS E CINA
Nel 1959, quale esito di una rottura interna all’ANC, veniva fondato il Pan-Africanist Congress (PAC), vicino alle idee dell’ex militante comunista, divenuto importante teorico del panafricanismo, Geoge Padmore; il movimento intendeva la liberazione nazionale degli africani come processo autonomamente gestito da questi ultimi e ciò, nel caso sudafricano, si traduceva in una dura critica alla politica di alleanze dell’ANC. Proprio in occasione di una contestazione contro i pass organizzata nel 1960 dal PAC a Sharpeville, poco lontano da Johannesburg, la polizia aprì il fuoco contro i manifestanti uccidendone 69 e ferendone oltre 180; alle massicce proteste seguite alla strage, anch’esse duramente soffocate, il regime di Pretoria reagì con lo stato d’emergenza e il bando dall’ANC e del PAC. L’anno successivo, con un passaggio referendario, il governo convertiva l’Unione in Repubblica, abbandonando il Commonwealth a seguito delle critiche all’apartheid mosse dai suoi membri africani appoggiati da Canada e India. Il 1961, nel contesto di repressione seguito a Sharpeville, segnava anche l’abbandono, patrocinato per l’ANC innanzitutto da Mandela e, per il SACP, da Michael Harmel, della non violenza quale strumento pressoché esclusivo di lotta; in particolare Harmel, nel suo documento South Africa What’s Next?, considerava l’assolutizzazione di tale principio “futile” e persino “insidiosa” in quella fase della storia del paese. La nuova linea politica, vincendo le resistenze interne all’ANC, in specie del presidente Albert Lutuli, e al SACP, in primo luogo Kotane, si materializzava con la costituzione di Umkhonto we Sizwe (MK), il cui comando annoverava Sisulu, Slovo e Mandela; secondo quest’ultimo, la neonata formazione optò – escludendo, sia per ragioni pratiche che per le possibili conseguenze negative, la rivoluzione aperta, la guerriglia e il terrorismo – per il sabotaggio. Nel dicembre del 1961, con modalità miranti a minimizzare l’eventualità di vittime civili, una serie di ordigni esplodevano in uffici e infrastrutture governative, in concomitanza a una campagna propagandistica per rendere pubblica la formazione di MK.
Nel 1962 l’ANC, anche tramite un tour di Mandela, stabiliva legami con governi e movimenti del continente: dal Ghana di Kwame Nkrumah all’Etiopia, passando per Egitto, Marocco, Algeria, Guinea, Liberia e Tanganica, alcuni dei quali avrebbero fornito in seguito addestramento per MK; anche la Cina e l’URSS contribuivano alla formazione delle reclute inviate dal SACP, in campi di addestramento situati presso Nanchino e Odessa, Unione Sovietica che sosteneva inoltre una serie di movimenti – come il Fronte di liberazione del Mozambico (FRELIMO), l’Unione popolare africana di Zimbabwe (ZAPU) e il Movimento popolare di liberazione dell’Angola (MPLA) – alleati dell’ANC. Dall’altra parte gli Stati Uniti, nonostante la retorica sui diritti umani dell’amministrazione Kennedy e un inconsistente embargo sulle forniture militari al governo sudafricano, si opponevano, al pari della Gran Bretagna, a qualsiasi imposizione di sanzioni nei confronti di Pretoria, in ragione dei considerevoli interessi economici e strategici dell’imperialismo USA nel paese e in Africa in generale, esplicitati anche dallo stretto rapporto tra i rispettivi servizi segreti. La CIA probabilmente non fu estranea, nell’agosto del 1962, all’arresto di Mandela, il quale l’anno seguente fu coimputato, insieme ad altri nove tra militanti dell’ANC e del SACP, nel cosiddetto Processo Rivonia, con accuse che andavano dal sabotaggio alla violazione del Supression of Communism Act, passando per la cospirazione finalizzata a fomentare una rivoluzione violenta; nella squadra di legali figurava Bram Fischer, a cui è stato riconosciuto parte del merito nel sottrarre alla pena capitale gli accusati, otto dei quali condannati al carcere a vita nel 1964. Fischer – convinto comunista e fermo oppositore dell’apartheid, pur essendo membro di una nota famiglia afrikaner e che, a detta di Mandela, avrebbe potuto aspirare alla carica di primo ministro – dopo una breve clandestinità venne anch’egli condannato all’ergastolo, morendo nel 1975 pochi mesi dopo la sua scarcerazione concessa a causa delle gravi condizioni di salute.
Nel 1963, J.B. Marx e Joe Slovo lasciavano il Sudafrica, il secondo non vi fece ritorno per quasi tre decenni, mentre Ruth First, partita l’anno successivo, e il cui impegno avrebbe intrecciato attività accademica e politica tra l’Inghilterra e numerosi paesi africani, venne assassinata a Maputo nel 1982 a opera di un agente del regime sudafricano. Nel 1969, in parte anche a causa delle dure critiche rivolte da Chris Hani, militante in ascesa del SACP e di MK, alla fallita operazione congiunta MK-ZIPRA (Zimbabwean People’s Revolutionary Army) mirante a stabilire una base in Rhodesia e creare quindi un corridoio per il Sudafrica, l’ANC convocava una conferenza a Morogoro in Tanzania. Tra le decisioni prese in quella sede – oltre all’apertura dell’ANC, limitatamente alla sua missione esterna, a bianchi e indiani – la creazione di un Consiglio rivoluzionario, finalizzato alla preparazione ed esecuzione delle operazioni di MK, con una forte presenza comunista; ciò nonostante, il passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta sarebbe stato caratterizzato dalle difficoltà a stabilire una presenza tanto in Sudafrica che nei paesi circostanti, nonché dalle tensioni con quelli fino ad allora ospitali come Zambia e Tanzania. Anni in cui per altro emergevano nuovi soggetti all’interno del Sudafrica, come il Black Consciusness Movement (BCM) che, all’esigenza di autonomia politica propugnata dal panafricanista PAC nell’emancipazione dei neri, affiancava – sulla scorta di Fanon, del Black Power USA e di Malcolm X – l’insistenza circa il superamento dei fattori psicologici e culturali dell’oppressione. Prospettiva alla quale si rifacevano gli studenti, cui si sarebbero uniti anche molti lavoratori, protagonisti della Rivolta di Soweto iniziata nel 1976 e repressa nel sangue dal regime di Pretoria, responsabile l’anno successivo anche della morte in detenzione di Stephen Biko, esponente di primo piano del BCM [6].
L’INTERVENTO DI CUBA E L’INIZIO DELLA FINE DELL’APARTHEID
Il 1974, con la caduta di Caetano in Portogallo, apriva la strada all’ascesa in Angola dell’MPLA, contrastata da Washington e dal Sudafrica tramite il sostegno all’Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (UNITA) di Jonas Savimbi, oltreché al Fronte Nazionale di liberazione dell’Angola (FNLA), spalleggiato anche dallo Zaire di Mobutu. Il movimento guidato da Agostinho Neto, viceversa, poteva contare sul decisivo supporto militare di Cuba che, concretizzatosi tra il novembre del 1975 e l’aprile del 1976, contribuiva a fermare l’avanzata di Pretoria – la quale, nell’ottobre 1975, aveva invaso l’ex colonia portoghese – e l’ingerenza USA. L’indipendenza dell’altra colonia portoghese, il Mozambico, le difficoltà in Namibia, dovute alla guerriglia dell’Organizzazione del popolo dell’Africa del Sud ovest (SWAPO), e la batosta angolana privavano il Sudafrica dell’apartheid di molti vicini sino ad allora simpatetici; portando invece al potere o rafforzando movimenti in buoni rapporti con l’ANC e il SACP e dunque con MK, il cui principale campo di addestramento, Novo Catengue, avrebbe trovato sede proprio in Angola con istruttori cubani e sovietici. Inoltre, nel 1978, una delegazione guidata dal presidente dell’ANC Oliver Tambo e comprendente, oltre al comandante di MK Joe Modise, anche Joe Slovo, giungeva in Vietnam avendo modo di consultarsi col generale Giáp; la valorizzazione promossa da quest’ultimo dell’aspetto politico delle operazioni, favorita rispetto alla loro riuscita esclusivamente militare, ebbe una certa influenza sulla rielaborazione della strategia di MK, riassunta nel cosiddetto Libro verde, in buona parte opera di Slovo.
A partire dal 1980 MK compiva dunque una serie di attacchi – pianificati dalla Special Operations Unit, entità ideata da Tambo e Slovo, di fatto sotto la guida di quest’ultimo – con cui andava a colpire obiettivi all’interno del territorio sudafricano, dimostrando così la propria recuperata capacità di operare all’interno del paese. La reazione di Pretoria, oltre a una campagna, amplificata anche dalla stampa statunitense, finalizzata a dipingere le incursioni come opera di un gruppo terroristico dominato da comunisti bianchi, si materializzò con l’uccisione in Mozambico attuata da commando sudafricani di numerosi quadri di MK, in aggiunta a frequenti infiltrazioni, frutto di pesanti strascichi, tra i ranghi e persino ai vertici del braccio armato dell’ANC. In questo contesto, nel 1983, unità di MK comandate tra gli altri da Chris Hani assistevano, sia pur con alterne fortune, l’MPLA contro una serie di attacchi compiuti dall’UNITA, la quale continuava a godere dell’appoggio del Congresso USA; la stessa assemblea, nel 1986, si sarebbe decisa a scavalcare il veto di Reagan sulle sanzioni al Sudafrica che, per altro, poteva contare sulla continua violazione da parte d’Israele dell’embargo sugli armamenti impostogli dall’ONU nel 1977.
La prima metà degli anni Ottanta fu per il regime dell’apartheid un periodo travagliato anche in politica interna, in particolare il biennio 1984-85 si caratterizzò per numerosi scioperi – in specie quelli dei minatori neri – frequenti scontri con le forze dell’ordine nelle aree urbane come in quelle rurali, boicottaggi delle scuole e dei trasporti. La brutale repressione del governo, pur mettendolo in cattiva luce a livello internazionale, non dissuadeva Margareth Thatcher dal cercare d’impedire azioni concrete contro l’apartheid da parte della Gran Bretagna e dei paesi del Commonwealth.
Sudafrica che proseguiva la propria guerra sporca contro gli indesiderati vicini Angola, Botswana e, come emergeva nel 1986, in aperta violazione dell’accordo di Nkomati con cui si era impegnato a non operare nell’ex colonia portoghese, il Mozambico governato dal FRELIMO sotto la guida di Samora Machel, contro il quale Pretoria sosteneva la sedicente Resistenza nazionale mozambicana (RENAMO). Quello stesso anno, Joe Slovo assumeva la carica di segretario del partito, sostituito ai vertici di MK da Chris Hani. Ma le sorti del regime dell’apartheid si decidevano ancora una volta in Angola, teatro di una battaglia, tra 1987 e 1988, durante la quale forze dell’MPLA assediate a Cuito Cuanavale riuscivano, con l’apporto determinante di Cuba, a contenere quelle congiunte di UNITA e Sudafrica. Sebbene l’esito delle operazioni militari sia oggetto di dibattito, le conseguenze costituirono chiaramente una sconfitta politico-simbolica per Pretoria, così sintetizzata da Mandela: “ha distrutto il mito dell’invincibilità dell’oppressore bianco […] ispirato le masse in lotta del Sudafrica […] Cuito Cuanavale è stato il punto di svolta per la liberazione del nostro continente – e del mio popolo – dal flagello dell’apartheid”; in concreto, il Sudafrica si ritirava completamente e definitivamente dall’Angola, perdendo inoltre il controllo di fatto sino ad allora esercitato in Namibia, la quale giungeva all’indipendenza nel 1990.
Il regime dell’apartheid ormai sempre più isolato a livello internazionale, nonché impossibilitato a porre fine alle tensioni interne – nel 1987, nonostante lo stato d’emergenza in vigore dall’anno precedente, 250.000 minatori neri scioperavano per tre settimane – si vedeva costretto ai primi contatti con i vertici ANC in carcere o in esilio; tra la seconda meta degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta le leggi costituenti il quadro formale della segregazione, come il Population registration Act, venivano abrogate e nel 1990 cadeva il bando contro l’ANC e il SACP [7].
1) https://www.nytimes.com/1995/01/07/obituaries/joe-slovo-anti-apartheid-stalinist-dies-at-68.html; https://www.nytimes.com/2003/02/08/opinion/the-i-can-t-believe-i-m-a-hawk-club.html; https://twitter.com/OttobreInfo/status/1284538073829847040; https://time.com/5338569/nelson-mandela-terror-list/; http://news.bbc.co.uk/2/hi/americas/7484517.stm; https://www.wsj.com/articles/when-communists-took-over-south-africawhen-communists-took-over-south-africa-1386963879; https://ottobre.info/2020/07/16/afroamericani-e-comunismo-negli-stati-uniti-una-breve-rassegna/.
2) Hosea Jaffe, Sudafrica. Storia politica, Jaca Book, 2010, pp. 39, 41-73; Leonard Thompson, A History of South Africa, Yale University Press, 2001, pp. xix, 33, 45, 51-52, 54-55, 112-113, 117-132; Charles H. Feinstein, An Economic History of South Africa. Conquest, Discrimination and Development, Cambridge University Press, 2005, pp. 14-16, 97; J. Vansina, Les Mouvements de populations et l’émergence de nouvelles formes sociopolitiques en Afrique, in Histoire generale de l’Afrique, vol. V, Éditions UNESCO, 1999, pp. 76-77, 83, 92, 1088; Ngwabi Bhebe, Les Britannique, les Boers et les Africaines en Afrique du Sud, 1850-1880, in Histoire generale de l’Afrique, vol VI, Éditions UNESCO, 1996, pp. 173-209; T. H. R. Davenport e Christopher Saunders, South Africa. A modern History, Palgrave Macmillan, 2000, pp. 240-242, 270-273; Walter Rodney, How Europe Underdeveloped Africa, Verso, 2018, pp. 179-182.
3) Thompson, 2001, pp. 149-153, 159-160, 174-177; Davenport e Saunders, 2000, pp. 262-264, 275-276, 283; Jaffe, 2010, pp. 208-209; Wessel Pretorius Visser, The Star in the East: South African Socialist Expetations and Responses to the Outbreak of the Russian Revolution, in South African Historical Journal 44, maggio 2001, pp. 40-71; https://www.sahistory.org.za/archive/chapter-1-promise-impossible-revolution-cape-town-industrial-socialist-league-1918-1921; https://www.sahistory.org.za/article/1913-mineworkers-strike; https://www.marxists.org/history/international/comintern/sections/sacp/1917/native.htm; Apollon Davidson, Irina Filatova, Valentin Gorodnov, Sheridan Johnes (a cura di), South Africa and the Communist International. A documentary History, Vol. I, Frank Cass Publishers, 2003, pp. 80-83; https://www.marxists.org/history/international/comintern/sections/sacp/1921/manifesto.htm; Jeremy Krikler, White Rising. The 1922 Insurrection and Racial Killing in South Africa, Manchester University Press, 2005, pp. 109-110, 130-150; Steven G. Marks, “Workers of the World Fight and Unite for a White South Africa”: The Rand Revolt, the Red Scare, and the Roots of Apartheid”, in The Global Impacts of Russia’s Great War and Revolutions, Book 2, Part 1, The Wider Arc of Revolution (Bloomington, Slavica, 2019), pp. 195-226.
4) Stephen Ellis e Tsepo Sechaba, Comrades Against Apartheid. The ANC and the South African Communist Party in Exile, Indiana University Press, 1992, pp. 15-20; Allison Drew, Bolshevizing Communist Parties: The Algerian and Sout African Experiences, in International Review of Social History 48, 2003, pp. 189-193; Oleksa Drachewych, The communist International, Anti-Imperialism and Racial Equality in British Dominions, Routledge, 2019, pp. 75-97; Davidson, Filatova, Gorodnov, Johnes (a cura di), 2003, p. 12; brevi ritratti biografici dei militanti neri citati sono reperibili sul sito https://www.sahistory.org.za/; https://www.marxists.org/history/international/comintern/sections/sacp/1926/expulsion-communists.htm; Akim Hadi, Pan-Africanism. A History, Bloomsbury Accademic, 2018, pp. 67-71; https://www.marxists.org/history/international/comintern/sections/sacp/1928/comintern.htm; Allison Drew, Betwen Empire and Revolution: A life of Sidney Bunting, 1873-1936, Pickering & Chatto, 2007, pp. 149-165; https://www.sahistory.org.za/archive/document-24-e-r-roux-thesis-south-africa-presented-sixth-comintern-congress-28-july-1928; Thompson, 2001, p. 166; Sifiso Mxolisi Ndlovu, Johannes Nkosi and the Communist Party of South Africa: Images of “Blood River” and King Dingane in the Late 1920s-1930, in History and Theory, Vol. 39, No. 4, 2000, pp. 111-132.
5) Ellis e Sechaba, 1992, p. 21-28; Cherryl Walker, Women and Resistance in South Africa, Monthly Review Press, 1991, pp. 97-100, 153-235; Peter Alexander, Workers, War and the origins of Apartheid. Labour and Politics in South Africa 1939-48, Ohio University Press, 2000, p. 41; Thompson, 2001, pp. 187-191; Silvia C. Turrin, Il movimento della Consapevolezza Nera in Sudafrica. Dalle origini al Lascito di Stephen Biko, Erga Edizioni, 2011, pp. 32-47; Claude Meillassoux, Gli ultimi bianchi. Il modello sudafricano, Liguori editore, 1982, pp. 16-17; T. Dunbar Moodie, The moral Econmy of the Black Miners’Strike of 1946, in Journal of Southern African Studies, Vol. 13, N. 1, ottobre 1986, pp. 1-35; Nelson Mandela, Lungo cammino verso la libertà. Autobiografia, Feltrinelli, 2004, pp. 105-106, 113, 118-123, 129-134; http://asq.africa.ufl.edu/johns_fall07/; Alan Wieder, Ruth First and Joe Slovo in the War Against Apartheid, Monthly Review Press, 2013, pp. 65-68, 92-93; Arianna Lissoni, Yusuf Dadoo, India and South Africa’s Liberation Struggle, in Anna Konieczna e Rob Skinner (a cura di), A Global History of Anti-Apartheid. “Forward to freedom” in South Africa, Palgrave Macmillan, 2019, p. 203-238; https://www.sahistory.org.za/article/south-african-coloured-peoples-organisation-sacpo; https://www.sahistory.org.za/article/south-african-congress-democrats-cod; https://www.sahistory.org.za/article/south-african-congress-trade-unions-sactu; William Freund, Organized Labour In South Africa: History and Democratic Transition, in Jon Kraus (a cura di), Trade Unions and the Coming of Democracy in Africa, Palgrave Macmillan, 2007, p. 206; http://www.historicalpapers.wits.ac.za/inventories/inv_pdfo/AD1137/AD1137-Ea6-1-001-jpeg.pdf; Helen Joseph, If This Be Treason, Andre Deutsch, 1963, pp. 13-20.
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7) Piero Gleijeses, Conflitting Missions. Havana, Washington and Africa, 1959-1976, University of North carolina Press, 2002, pp. 246-346; Piero Gleijeses, Visions of Freedom. Havana, Washington, Pretoria and the Struggle for Southern Africa, 1976-1991, University of North Carolina Press, 2013, pp. 87-89, 186, 237-238, 289-296, 393-502; Wieder, 2013, pp. 217-220, 231-239, 286-287; Davis, 2018, pp. 17-19; Thompson, 2001, pp. 228-230, 232,239; 246-247.