Presentiamo in traduzione questo eccellente articolo di Devyn Springer che affronta il tema del monopolio della violenza, del rapporto tra razzismo e repressione interna da un lato e imperialismo/antimperialismo dall’altro, nel contesto USA. Si tratta di uno scritto del 2017 particolarmente illuminante oggi viste le rivolte in corso negli USA in seguito all’omicidio di George Floyd da parte della polizia.
“Penso che chiunque stia sinceramente lottando contro il razzismo deve lottare contro l’imperialismo e viceversa” – Assata Shakur [1]
È deleterio ai fini della liberazione nera il fatto che intendiamo i concetti di violenza, nonché quello di terrorismo, esclusivamente nel modo in cui ci sono propinati attraverso un monopolio epistemico. Vi è un doppio standard e un monopolio suprematista bianco su tale concetto, e sebbene ciò non sorprenda, risulta profondamente disturbante. Chi definisce quali forme di “violenza” sono accettabili, chi può perpetuarle, e infine, chi è responsabile della violenza non approvata? Come persone nere in Occidente, un popolo derubato della sua libertà su una terra colonizzata, il fatto di prendere la nostra stessa definizione, normalizzazione e comprensione della violenza dai nostri oppressori, camuffati da civilizzatori e umanitaristi, dovrebbe costituire un inquietante promemoria di questo monopolio. Entro tale analisi della violenza, ci viene rammentata l’importanza di una chiara posizione antimperialista all’interno della nostra prospettiva per la liberazione nera, poiché, come ebbe notoriamente a dire Malcolm X, “la polizia fa a livello locale ciò che l’esercito fa a livello internazionale”.
Allo scopo di cogliere ulteriormente questo monopolio della violenza, specialmente nel contesto della liberazione nera, è necessario possedere una definizione operativa di potere egemonico. In breve, gli Stati Uniti possano essere definiti come potenza egemonica mondiale; ciò significa che gli USA, ovunque, dominano praticamente in ogni contesto politico, economico, sociale e culturale. Un simile dominio totalizzante, e talvolta granitico, viene perpetuato tramite la violenza, ma raramente identificato come tale. Attraverso svariati meccanismi coercitivi di violenza statale, diretta e indiretta, gli USA mantengono un potere gerarchico sugli altri paesi, e sono quindi responsabili delle sempre più profonde disparità fra i Tre mondi [2].
Nel momento in cui smascheriamo il potere egemonico degli Stati Uniti, ci rendiamo conto di come sia mantenuto non solo tramite il mero sfruttamento violento, ma anche mediante la perpetuazione di un’epistemologia occidentocentrica efficacemente costruita. All’interno di questa epistemologia o percezione sociale della verità, il concetto di “violenza” è costruito, già in età giovanile, per essere qualcosa che viene fatto agli USA e mai da questi perpetrato. Gli Stati Uniti non si autoritraggono quali aggressori in alcuna circostanza, presentando soggetti come la schiavitù, il colonialismo e i cambi di regimi esteri sotto una lente di benevolenza in luogo della violenza reale che rappresentano. Le modalità con le quali gli USA creano le narrazioni riguardo, per esempio, la loro storia di riduzione in schiavitù degli africani, esibiscono a volte l’uso di termini come “lavoratore” al posto di “schiavo”, o anche di “africano schiavizzato”, in testi scolastici finanziati dallo stato [3]. Un altro esempio di tale fabbricazione di narrazioni riguarda l’eredità del Black Panther Party, designato popolarmente come “gruppo terroristico anti-bianco” e comparato al Ku Klux Klan, nonostante ogni evidenza fattuale dimostri quanto ciò sia lontano dal suo reale lascito [4]. Si tratta dunque della creazione [5] di una specifica epistemologia, la quale proietta un senso di benevolenza e assenza di responsabilità sul retaggio degli Stati Uniti.
Tanto le vicende interne quanto quelle internazionali, che comportino una percepita aggressione contro gli Stati Uniti, dovrebbero essere vagliate e comprese entro il contesto di questo monopolio della violenza, perché ci consente di esaminare al meglio il nostro stesso posizionamento negli affari esteri. Il fatto che immagini e video di siriani attaccati con armi chimiche presumibilmente dal governo siriano, affermazione che è stata smentita e manca di prove [6], avrebbero “scosso” il presidente Trump portandolo ad agire contro lo stato siriano è un esempio risibile di tale monopolio al fine di generare propaganda. Se presunte immagini di persone sottoposte ad abusi da parte di soggetti statali hanno il potere di persuadere il presidente USA ad agire, perché gli innumerevoli fotogrammi di manifestanti neri e indigeni colpiti, negli Stati Uniti, da spray al peperoncino, da gas lacrimogeni, sequestrati dalla polizia, pestati da agenti di quest’ultima o da milizie private, attaccati con i cani, presi di mira con cannoni ad acqua a temperature sotto lo zero, proiettili di gomma e con cannoni sonori [7] non suscitano ampie azioni da parte del governo statunitense? Per farla breve, questa violenza viene etichettata come “accettabile”.
I poteri socialmente e politicamente dominanti suddividono la violenza in accettabile e inaccettabile. Una dicotomia alquanto semplice; tra la violenza accettabile può essere classificata tutta quella che favorisce l’impero suprematista bianco. La violenza accettabile, definibile anche come “violenza giustificabile”, è costituita appunto da quei meccanismi che raramente vengono designati come violenza, ma sono invece percepiti come necessari e/o inevitabili. La nozione di “proteggere un impero” è inerente alla stessa forma di esistenza statunitense, e pertanto non viene vista come violenza reale oltre a essere raramente posta in discussione. Motivo per cui l’eredità di Obama, ovvero il ricorrere ai droni in paesi prevalentemente non-bianchi, e che durante la sua presidenza ha raggiunto numeri record causando migliaia di morti, è stato a malapena contestato, in quanto prescritto quale “male necessario” per l’avanzamento del nostro impero [8].
Se dunque la violenza accettabile è quella che dà impulso all’impero, inaccettabile è invece quella che lo mette in pericolo o lo demolisce. Ciò che ricade in quest’ultima categoria viene solitamente etichettata come violenza, nonché demonizzata allo scopo di promuovere la dicotomia tra le sue differenti manifestazioni. Un esempio lo si può trovare nelle parole del compianto studioso e militante panafricanista Walter Rodney, il quale ha discusso, nel suo classico volume “Groundings With My Brothers”, l’indignazione della “violenza” mirante a reinstaurare l’umanità e i doppi standard nella percezione sociale della violenza. Sostiene Rodney: “Ci viene detto che la violenza in sé è il male, e che, qualunque ne sia la causa, è moralmente ingiustificata. In base a quale criterio morale può la violenza esercitata dallo schiavo, per spezzare le sue catene, essere considerata al pari di quella di un proprietario di schiavi?”
In questa affermazione vi è un’importante logica applicabile a molteplici situazioni e conflitti nel discorso della storia. Perché la reazione violenta dei gruppi marginalizzati viene demonizzata e identificata come “violenza”, mentre la causa della sua esplosione iniziale non viene definita come tale? Come mai i palestinesi vengono sistematicamente indicati quali individui “violenti”, considerato che la loro violenza sussiste, il più delle volte, come autodifesa contro l’entità coloniale che infligge loro una quotidiana violenza strutturale prossima alla definizione di genocidio [9]? Perché gli statunitensi neri vengono etichettati come “violenti” in seguito a proteste, tumulti e sollevazioni che distruggono proprietà, laddove il sistema che ci disumanizza, ponendoci inoltre al di sotto della protezione della proprietà privata, non è invece considerato tale?
Questo monopolio della violenza non solo influisce sul come e sul chi la subisce, ma anche sulle modalità con le quali le immagini di essa, come quelle provenienti dalla Siria per esempio, vengono distribuite. Immagini prevalentemente di vittime di bombardamenti da parte del governo – governo che gli USA hanno tentato di rovesciare. Tuttavia, ciò che non viene mostrato sono le atrocità commesse dalla parte che ha il sostegno degli Stati Uniti e dei loro alleati. Nel corso della copertura mediatica sulla Siria, quando i membri di al-Qaeda in Siria erano sull’orlo della disfatta nella zona est di Aleppo, abbiamo sentito ad nauseam resoconti circa “l’assedio di Aleppo”, e che la popolazione nella sacca est della città era sul punto di essere rastrellata e trucidata in massa dal governo. Benché questo timore sia stato ingurgitato da molti, non vi sono prove che un simile evento abbia avuto luogo. D’altra parte, nei media mainstream non è stato proferito verbo riguardo a due villaggi sciiti nella provincia d’Idlib, sotto assedio per anni dei ribelli allineati ad al-Qaeda, con una popolazione sottoposta a tremende sofferenze a seguito di devastanti attacchi, il tutto sotto il naso degli USA e dei loro alleati [10].
Il monopolio sulle immagini e sulle modalità con le quali ci viene richiesto di consumarle è comune a numerosi luoghi e circostanze in tutto il mondo. Come mai non siamo inondati da immagini dell’embargo/bombardamento USA-saudita dello Yemen, il quale oltre a uccidere decine di migliaia di persone, ha condotto il paese sull’orlo della carestia [11]? Dove sono le orripilanti immagini della Libia post-Gheddafi, nella quale gli africani neri vengono giustiziati sommariamente nelle strade e venduti in mercati degli schiavi [12]? Immagini che non hanno avuto diffusione, poiché qualsiasi cosa suggerisca che gli Stati Uniti contribuiscono alle sofferenze di esseri umani, su scala inimmaginabile, ha il potenziale d’interferire con la loro reputazione, percepita, di tutori globali e di autorità civilizzatrice e potrebbe comprometterne il monopolio della violenza.
Nel breve libro del dottor Eqbal Ahmad, “Terrorism: Theirs and Ours”, egli compara i concetti di “terrorista” e “combattente per la libertà” con le azioni della politica estera USA, esaminando le radici della violenza politica così come la relativa narrazione/propaganda. Nella sua analisi afferma che “il terrorista di ieri è l’eroe di oggi, l’eroe di ieri diviene il terrorista di oggi”. Ma cosa è necessario al fine di creare un movimento di massa costituito da persone impegnate a identificare l’eroe odierno come il cattivo del passato quanto del presente? In altre parole, a che punto vedremo gli Stati Uniti come il cattivo dietro la maschera dell’eroe, il cattivo che è sempre stato?
Nel sistema capitalistico suprematista bianco, che al momento prospera usando il tropo del “musulmano terrorista” per giustificare un violento sfruttamento, l’analisi del concetto di “terrorismo” proposta dal dottor Ahmad diventa estremamente importante e utile nel riconoscere quanto in realtà sia triviale la questione [13]. Egli identifica cinque tipologie di terrorismo: terrorismo di stato, terrorismo religioso, mafia/criminalità, terrorismo patologico e terrore politico/d’opposizione [14]. Fra queste cinque tipologie, sostiene il dottor Ahmad, “l’attenzione viene concentrata solo su di una, la meno importante in termini di perdita di vite umane e proprietà personali: il terrore politico esercitato da coloro che vogliono farsi ascoltare”. Se il solo terrorismo su cui si focalizzano i media dominanti e il dibattito è il terrore politico di rivalsa, o quello oppositivo in risposta all’oppressione, allora il soggetto egemone è ben posizionato per essere assolto dalla responsabilità di terrorismo. Rafforzando quanto più possibile il baluardo epistemologico sui concetti di violenza e terrorismo, gli Stati Uniti vengono visti come incapaci di commettere atti riconducibili a queste due categorie. Ma quando pressoché il 90% degli attacchi con droni in luoghi come la Somalia e lo Yemen non colpiscono il loro obiettivo [15], ferendo e uccidendo civili, qual è la linea oltre la quale interpretiamo ciò come atto di terrorismo?
Il monopolio della violenza gioca anche un ruolo centrale nella costruzione della narrazione storica statunitense. Lo abbiamo visto nel modo in cui gli USA modellano il discorso intorno alla fondazione della nazione, particolarmente in relazione alla storia della degradazione dei corpi neri e indigeni. Un discorso fatto di scoperta, e quando le popolazioni indigene vengono menzionate, il rapporto con i colonizzatori è di reciproca cooperazione invece del genocidio effettivamente verificatosi. Ancora oggi, ai bambini nelle scuole si insegna a celebrare figure come Andrew Jackson e Ulysses S. Grant quali pilastri della continuità di questa “grande nazione”, nonostante i resoconti storici colleghino entrambi a carriere costellate di uccisioni di massa dei popoli indigeni.
Volgendo uno sguardo retrospettivo alla Guerra civile americana, difficilmente vediamo un soggetto come Abraham Lincoln pensandolo come un criminale di guerra per aver inviato il generale Sherman nella cosiddetta marcia verso il mare [16]. Difficilmente sentiamo condannare Lincoln per violazioni dei diritti umani in riferimento alla divisione agli ordini di Sherman, quando questa era impegnata a bruciare i raccolti con l’intento di affamare e poneva intere città sotto assedio. Difficilmente pensiamo alle distruzioni causate da Lincoln in relazione agli africani schiavizzati colpiti dalle sue azioni, rispetto ai quali è accreditato come “liberatore”, mentre in realtà le sue decisioni militari hanno avuto effetti devastanti sugli stessi. La distruzione compiuta nel reprimere la ribellione reazionaria dei confederati era considerata una male necessario al fine di preservare gli interessi dei capitalisti industriali del nord. A oggi, nessuna ONG per i diritti umani ha cercato di demolire il Lincoln Memorial a Washington D.C., né qualcuno si è assunto il compito di decostruire la glorificata violenza coloniale che circonda la sua eredità. Il contesto è importante, motivo per cui vi sempre uno strenuo sforzo da parte dei vincitori, nel nostro caso i profittatori dell’impero, finalizzato a controllare la narrazione e dunque il contesto stesso.
La patologia di un violento imperialismo è, nella sua essenza, la sociopatia. Essere l’oppressore esime dal pensare al costo umano delle proprie avventure – non richiede che si pensi alle conseguenze – e del resto perché dovrebbe, quando si possono semplicemente riconfezionare in un’ennesima, potenzialmente lucrativa, opportunità? L’espansione dell’ISIS attraverso Siria, Iraq, Penisola del Sinai e, più di recente, Afghanistan, ha costituito un regalo per l’industria degli armamenti statunitense, allo stesso modo in cui la criminalizzazione istituzionalizzata dei neri lo è stata per il complesso carcerario-industriale. I produttori di armamenti, come Boeing e Lockheed Martin, hanno fatto enormi profitti durante l’escalation nella guerra dei droni sotto Obama, e l’Afghanistan e divenuto un terreno di prova per nuove armi, soprattutto la cosiddetta bomba MOAB, sviluppata dalla società Dynetics con sede in Alabama [17], usata il 13 aprile 2017. Nel momento in cui la notizia è comparsa, gran parte dei media si è mostrata certa che solo l’ISIS è stato colpito dall’ordigno, disconoscendo del tutto che approssimativamente 95.000 persone vivono presso il luogo della detonazione. L’imperialismo e l’aggressione estera, come molta violenza interna contro le persone marginalizzate, è motivata dall’incentivo dei profitti.
Si potrebbe suggerire che l’approccio degli Stati Uniti alla violenza avviene tramite il concetto di proprietà privata. Ovvero, la violenza stessa viene gestita come se fosse una forma di proprietà. Sotto domino egemonico, la violenza appartiene agli USA, e chiunque decida di ricorrervi deve noleggiarla e ricevere da loro un timbro di approvazione. Fin tanto che la violenza noleggiata (o acquistata) è complementare all’obiettivo di espandere l’impero, allora è accettabile. Nel solo 2017 abbiamo assistito all’omicidio di almeno otto donne trans di colore, un’allarmante crescita dei crimini di odio contro individui appartenenti a categorie oggetto di pregiudizi da parte della base elettorale del presidente, nonché oltre 290 persone uccise, a ora nel 2017, da agenti della polizia USA [18]. Tale violenza è consentita, ma quella in risposta a essa invece non lo è.
A livello macroscopico, vediamo simili rapporti all’opera nell’ambito della politica estera. Agli Stati Uniti, e ai governi da loro dipendenti in Medio Oriente, in particolare Israele e Arabia Saudita, tutto è consentito, da attacchi missilistici e bombardamenti aerei, sino al finanziamento, addestramento e armamento di gruppi terroristici in Siria [19]; ognuna di queste azioni uccide impunemente, eppure tutto ciò viene sottovalutato dalla comunità internazionale. Ma la violenza esercitata per contrastare simili minacce esterne è oggetto di minuzioso scrutinio. Se un altro paese, assistendo alle orrende violenze compiute contro persone nere, indigene, trans, queer e musulmane (tra tante altre) all’interno degli USA, decidesse di stabilire un programma di droni con obiettivo una base militare in California, usando il pretesto di “instaurare la democrazia” per gli individui marginalizzati, non verrebbe forse definito terrorista? Allora perché mai, ci si potrebbe chiedere, gli Stati Uniti non vengono additati e perseguiti quando agiscono allo stesso modo?
Nel capolavoro di Walter Rodney, How Europe Underdeveloped Africa, libro dedito a un’instancabile e dettagliata ricerca sulle svariate modalità con cui i paesi occidentali hanno prosperato dallo sfruttamento economico, culturale e interpersonale delle nazioni africane, l’autore afferma: “è un semplice fatto che nessuno può ridurre in schiavitù qualcun’altro per secoli senza trarre da ciò una nozione di superiorità… “. E davvero gli USA, con la loro violenta eredità di schiavitù, colonialismo e sfruttamento sia interni che globali, sono immersi in questo senso di superiorità, fondato sul controllo e il dominio degli altri di cui parla Rodney. Lo stesso Rodney che è stato capace di stabilire la connessione delle lotte tra la classe operaia della Guyana, i Rasta della Giamaica, quelli di Dar es Salaam, l’Institute of the Black World ad Atlanta e l’intera diaspora nera più in generale. Connessione instaurata attraverso il condiviso antimperialismo e la lotta decoloniale, abbattendo barriere geografiche e culturali, consentendo in tal modo ai neri del Primo mondo di meglio comprendere il loro stesso posizionamento e le loro responsabilità.
Walter Rodeny è solo uno dei tanti militanti impegnati, nel corso della storia, a denunciare il monopolio suprematista bianco della violenza, e nello studiare e celebrare il suo lascito vediamo quanto la sua riflessione si applichi perfettamente alle condizioni odierne. Tanti dicevamo, tra i quali anche Angela Davis, in particolare la sua impressionante intervista del 1971 in cui discute i temi della violenza e della rivoluzione [20], Malcolm X, Assata Shakur e Thomas Sankara. Altrettanto importante è citare la militante e studiosa nativa americana Winona LaDuke, frequentemente impegnata a evidenziare il doppio standard applicato dagli USA nel trattamento delle popolazioni indigene nelle riserve, e come la negazione di risorse come l’acqua potabile e l’elettricità a questi individui costituisca un atto di violenza sottovalutato.
In un’intervista rilasciata a Black Agenda Report, l’ex deputata democratica Cynthia McKinney si è scagliata contro il Partito Democratico per le sue posizioni belliciste, dicendo di provare “vergogna” e “imbarazzo” per i tantissimi progressisti incapaci di denunciare apertamente l’operato militarista di Obama. Ha inoltre discusso i pericoli creati dall’ex presidente per ogni movimento dei neri contro la guerra, descrivendolo come uno dei più “concreti mali” in atto nel processo di stravolgimento di un movimento per la pace costruito su posizioni antimperialiste nere. La McKinney esprime con autentica eloquenza i sentimenti di molti neri di sinistra, presentandoci un’esplicita frustrazione circa lo stato del movimento contro la guerra, movimento del quale i neri, e loro leader come MLK jr stesso, erano un tempo avanguardia. Al momento, i principi dell’antimperialismo e dell’opposizione alla guerra risultano completamente abbandonati. Il Partito Democratico è più attento a puntellare leader intenti a lanciare vuoti appelli per la rappresentanza orizzontale e la diversità, e la sua base sembra maggiormente interessata all’idea di un imperialismo intersezionale, anziché a rigettarlo.
Ancor più insidiosa e la totale cancellazione della sinistra nera, cosa intenzionale e che incide alla radice di ogni principio anti-bellicista e antimperialista a cui si possano ancora aggrappare le persone nere di sinistra. Che il commentatore, e orgoglioso liberale nero, Marcus H. Johnson sia stato in grado di pubblicare un intero articolo colmo di fallacie logiche, come accorpare Bernie Sanders e “l’estrema sinistra”, cancellando al contempo le voci della sinistra nera, nonché designando nettamente i seguaci dei Clinton come la “vera sinistra”, è dimostrazione ulteriore della natura arretrata della pacificazione, o ignoranza, caratterizzante quel concreto male post-Obama di cui parla la McKinney. Come detto, le fallacie nell’analisi fornita da Johnson sono molteplici, ma la più vergognosamente ineludibile è proprio la cancellazione della sinistra nera. Coloro fra di noi che, seguendo la natura della politica antimperialista e anticapitalistica posta sulle spalle della tradizione radicale nera e dei principii che questa abbraccia, si sono opposti all’intero Partito democratico, compreso lo spauracchio Sanders, vanno cancellati affinché la sua argomentazione sussista. Inoltre, l’esigenza di riaffermare una politica antimperialista, all’interno della nostra prospettiva di liberazione nera, risulta ancor più pressante alla luce dell’autentico spregio per le vite dei neri e di altri non bianchi, a livello internazionale, da parte di quel Partito democratico che Johnson sostiene diligentemente. Non molto tempo fa, Malcolm X ebbe a dire che siamo dei “fessi politici”, e se continuiamo ad abbandonare i principi per sostenere partiti e posizioni che collettivamente non ci portano da nessuna parte, allora la sua affermazione si rivelerà corretta.
Rimuovere la maschera del doppio standard insito nell’egemonia bianca sulla violenza significa anche rimuoverla da quelle istituzioni, e individui, che ostacolano la liberazione collettiva. In parole povere, l’antimperialismo deve diventare ancora una volta un principio non negoziabile del radicalismo popolare nero. L’esponente del Black Panther Party, ex prigioniera politica e militante Assata Shakur ha dichiarato “qualsiasi comunità seriamente preoccupata per la propria libertà lo deve essere anche per quella degli altri popoli. La vittoria dei popoli oppressi ovunque nel mondo è anche una vittoria per quello nero. Ogni volta che un tentacolo dell’imperialismo viene reciso siamo più vicini alla liberazione”. In quanto persone nere, la nostra liberazione è definitivamente connessa a quella del Sud globale, e una politica antimperialista non è semplicemente una “teoria” astratta, bensì una politica fondata nel valorizzare e consolidare questa lotta tra noi e il Sud globale. L’antimperialismo non è fredda teoria, ma la linfa vitale della realtà delle persone a livello internazionale, e dobbiamo iniziare a intenderla in tal modo al fine d’individuare la continuità di una fattiva tradizione radicale nera.
Esaminare il monopolio della violenza attraverso una lente antimperialista è essenzialmente un’operazione panafricanista, un invito a ricordare: ciò che gli oppressori sono capaci di fare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle nel Sud globale, possono farlo agevolmente anche nel centro imperialista, ammesso che non stia già accadendo. Non solo polizia ed esercito condividono tattiche simili atte a controllare le popolazioni “native”, ma la polizia riceve un surplus di materiale militare per compiere tale lavoro [21], il che andrebbe inteso come indicatore di un’oppressione che trascende i confini nazionali, al servizio della conservazione delle gerarchie globali. In una società dominata dai privilegi accordati a individui spalleggiati da svariate rappresentanze sistemiche e istituzionali, le persone nere occidentali dovrebbero avere un’operativa politica antimperialista, al fine di smantellare il monopolio statunitense della violenza. Walter Rodney ci ha insegnato che ogni africano ha una responsabilità, o se si preferisce un dovere, consistente nel comprendere il sistema e lavorare al suo rovesciamento, non nell’integrarsi in esso.
Come si può trattare della violenza dei popoli oppressi in una sorta di vuoto quando, contemporaneamente, le chiese nere, le sinagoghe e le moschee vengono vandalizzate e colpite da attentati incendiari nell’era post-Trump; quando le famiglie immigrate vengono separate e detenute in carceri private in pessime condizioni per mesi [22]? Quando coloro che si associano al motto “proteggere e servire” sparano alle persone nere per strada, come si trattasse di prede. Se gli USA ritengono di poter usare la violenza – giustificabile o accettabile – internamente, di fronte ai nostri occhi, venendo a malapena contestati, cosa pensare allora in merito alla violenza esercitata a livello internazionale per “instaurare la democrazia” e “combattere il terrorismo”? Ed entro questo monopolio della violenza, a chi è concesso ricorrervi come mezzo per aiutare i marginalizzati negli Stati Uniti? E per questo che, al fine di concettualizzare un’efficace prospettiva di liberazione nera, è necessario includere una linea antimperialista che affronti la violenza inflittaci come ciclica e collaterale a quella esercitata altrove. La retorica che circonda la violenza deve necessariamente condurci a trattare questioni trascurate della nostra esistenza sotto dominio capitalistico. Il primo passo per decostruire e decolonizzare la violenza della supremazia bianca consiste nell’identificare, smascherare e far conoscere i meccanismi epistemologici cui ricorre per giustificare le proprie azioni e legittimarsi. E, se video e immagini sono sufficienti a convincere buona parte dei progressisti a colludere di punto in bianco con Trump sulla Siria, dobbiamo allora domandarci, senza una politica antimperialista cosa ci separa dai nostri oppressori?
“Come donna nera, la mia politica, e la mia affiliazione politica, sono legate, e ne derivano, alla partecipazione alle lotte per la liberazione del mio popolo, nonché a quella dei popoli oppressi di tutto il mondo contro l’imperialismo statunitense”
– Angela Davis
“Immagina questa nazione, composta di tutti i popoli, intenta in una crociata per rendere “il mondo un luogo sicuro per la democrazia!” Riesci a immaginare gli Stati Uniti protestare contro le atrocità dei turchi in Armenia, mentre questi tacciono sulle folle di Chicago e St. Louis; cos’è Lovanio comparata con Memphis, Waco, Washington, Dyersburg ed Estill Springs? Per farla breve, cos’è l’uomo nero se non il Belgio Americano, e come può l’America condannare in Germania ciò che commette, altrettanto brutalmente, dentro i suoi stessi confini?”
– W. E. B. Du Bois
- http://www.afrocubaweb.com/assata6.htm.
- https://books.google.it/books?id=5B3cCgAAQBAJ&pg=PT167&dq=asia+al+centro+teoria+dei+tre+mondi&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiN5dWItujpAhVQwcQBHZhYChkQ6AEIKjAA#v=onepage&q=asia%20al%20centro%20teoria%20dei%20tre%20mondi&f=false.
- https://www.newsweek.com/company-behind-texas-textbook-calling-slaves-workers-apologizes-we-made-380168.
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- https://www.cnbc.com/2017/04/06/us-military-has-launched-more-50-than-missiles-aimed-at-syria-nbc-news.html; https://www.aljazeera.com/news/2017/03/israel-carries-air-strikes-syria-170317070831903.html; https://www.independent.co.uk/voices/hillary-clinton-wikileaks-email-isis-saudi-arabia-qatar-us-allies-funding-barack-obama-knew-all-a7362071.html.
- https://twitter.com/HalfAtlanta/status/778590608562778112.
- https://www.nytimes.com/2014/06/09/us/war-gear-flows-to-police-departments.html?_r=0.
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Articolo originale: Mask Off: The Monopoly on Violence and Re-Invigorating an Anti-Imperialist Vision for Black Liberation di Devyn Springer
Traduzione e presentazione a cura di Zuseppe Sini
[…] 3. “[…] il nero è una sorta di settimo figlio nato con un velo e dotato di una seconda vista in questo mondo americano; un mondo che non gli concede alcuna vera coscienza di sé, ma gli permette di vedersi soltanto attraverso la rivelazione dell’altro mondo. Questa doppia coscienza, questo senso di guardarsi sempre attraverso gli occhi degli altri, di misurare la propria anima col metro di un mondo che ti guarda con divertito disprezzo e con pietà, è una senzazione davvero particolare.”, W.E.B. Du Bois, Le anime del popolo nero, Le Lettere, 2007, p.9; https://ottobre.info/2020/06/08/smascherare-il-monopolio-della-violenza-riaffermare-una-prospettiva-…. […]