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Femminismo, riflessioni per una ricomposizione delle lotte

Femminismo

di Alessandra

Premessa doverosa: il presente scritto non ha alcuna volontà, né pretesa di essere esaustivo dell’argomento. Piuttosto intende fornire degli spunti per una riflessione seria sulla questione, in un’epoca in cui scarseggiano sia la teoria, che le pratiche politiche.


 

Pensare e praticare il femminismo oggi, nei nostri paesi occidentali, attraversati da precedenti epoche in cui le lotte delle donne hanno – comunque la si pensi e pur se parzialmente – inciso e determinato modificazioni sociali affatto trascurabili, è qualcosa cui da un lato si risponde col luogo comune (reiterato da una parte di compagni; annosissima questione, considerato che anche negli anni ’70 complessivamente i compagni maschi vedevano nelle lotte femministe qualcosa di totalmente avulso – oserei dire, inutile – dalla/alla lotta “principe” contro il capitale) che “trattasi di lotte di retroguardia” (attraverso, soprattutto, l’assurdo assunto odierno che per lo più si tratta di diritti civili già conquistati; come se i diritti, civili e sociali, non vengano messi più in discussione una volta conquistati. Un esempio calzante, l’erosione continua di diritti nel mondo del lavoro) e dall’altro quello delle femministe, con la necessità ancora del tutto attuale di portare avanti battaglie culturali e sociali atte a scardinare il perdurante dominio dell’uomo sulla donna.

La nostra è una società basata sulle discriminazioni, nei luoghi di lavoro, nella vita privata, in quella pubblica in senso lato. Ma, a mio parere, tali discriminazioni riflettono l’inevitabile portato – anche, propriamente, da un punto di vista di “genere” – del sistema capitalista, in cui vige la fondante differenziazione tra sfruttati e sfruttatori. In questo senso, le donne pagano dei prezzi particolarmente alti; si vedano ad esempio le maggiori difficoltà che hanno nel trovare un lavoro – la disoccupazione femminile in Italia oscilla, per svariati motivi, tra il 30% di alcune regioni del nord e il 50%-70% al sud [1] -, le tristemente famose “dimissioni in bianco” in caso di maternità sopraggiunta, i salari inferiori rispetto ai colleghi maschi.

L’assenza di politiche sociali che favoriscano l’accesso al lavoro – una fra tutte, ad esempio, è la carenza cronica di asilo nido – e la (sotto)cultura sempre di stampo padronale (non a caso si parlava di “padre-padrone”) che ancora permeano la nostra società, ci pongono di fronte a serissime problematiche, che non possono essere sottovalutate, o addirittura disconosciute.

Da un punto di vista strettamente storico-culturale, negare l’esistenza della cultura del possesso – che riflette, dunque, quella della “proprietà privata” – ancora estremamente presente nelle pieghe della nostra società e da cui scaturisce l’orrenda realtà delle diverse forme di violenza sulle donne, in famiglia (anche in questo caso, sebbene il fenomeno risulti trasversale e non faccia quindi distinzione di classi sociali, sono maggiormente colpite le donne economicamente subalterne, che non possiedono cioè strumenti prima di tutto concreti per uscire dal tunnel di sopraffazioni a cui vengono sottoposte dai loro “compagni/mariti”) e fuori di essa, significa contribuire a reiterarla all’infinito.  Basti pensare, a titolo di esempio, al delitto d’onore, abrogato nel 1981, ovvero ieri in termini storici (legge n. 442 del 10 agosto 1981).

La donna, d’altronde, è ancora considerata “merce” , “mezzo di riproduzione” da non pochi uomini e non poche donne; non titolare quindi di diritti, né individuali né collettivi. Dunque, anche la negazione di una tale, storica sovrastruttura culturale e, di conseguenza, politica – che in quanto tale è purtroppo trasversale, attraversando i generi e le classi – non concorre certamente né ad una corretta analisi della problematica complessiva, né tanto meno ad un agire comune verso lo sradicamento delle forme di discriminazione e di sfruttamento che subiscono le donne.

A tal proposito, molto interessante è il dibattito intorno alla maternità surrogata, volgarmente chiamata “utero in affitto”. Lo è perché, spesso, dietro l’urlare contro lo sfruttamento capitalistico delle donne si cela di fatto – ancora oggi, come sempre – una precisa volontà di controllo e di gestione del corpo delle stesse. Lo è perché, al di là della seppur verissima analisi circa la possibilità – e anche l’attualità, purtroppo – che la maternità surrogata venga utilizzata per comprare da parte di coppie ricche una gravidanza (portata avanti da donne povere e, quindi, bisognose) a cui le stesse non hanno possibilità di accesso diretto, in realtà risulta evidente quanto non si voglia neanche provare a pensare (figuriamoci a realizzare) una qualsiasi normativa che impedisca tale forma di sfruttamento.

Tuttavia, l’evidenza più assoluta e indiscutibile circa la volontà di controllo da esercitare sulle donne è data dagli attacchi mai sopiti alla legge n. 194, che regolamenta l’interruzione volontaria di gravidanza [22 maggio 1978 (2)] sin dalla sua entrata in vigore. Uno tra i più recenti attacchi politici a essa è stato portato avanti dalla Lega nel 2019 [3]. Non credo che vi sia bisogno di sottolineare, anche in questo caso, quanto la suddetta legge garantisca maggiormente le donne proletarie, italiane e non, le quali ultime già di per sé – in tantissimi casi – sono assolutamente prive di qualsiasi diritto sociale e civile. Le donne ricche, infatti, potevano praticare e praticavano l’IVG nelle cliniche private, a pagamento, anche quando essa era illegale. Mentre alle donne povere erano riservate le “mammane”, in condizioni prive di qualsiasi sicurezza igienico-sanitaria e utilizzando “strumenti” (ricordiamo anche il famigerato prezzemolo) che in molti casi hanno portato alla morte.

Tuttavia persino dall’entrata in vigore della legge 194 abbiamo dovuto registrare diversi casi di medici ginecologi obiettori nelle strutture pubbliche che praticavano/praticano l’aborto in strutture private, ovvero a pagamento. Dunque, anche il diritto all’aborto è, sì, diritto inalienabile di scelta individuale, ma è per se stesso diritto collettivo, sociale.

Ma gli attacchi alle suddetta legge non sono “soltanto” di ordine politico-culturale: la percentuale attuale di obiettori  in alcune regioni italiane, infatti, si attesta all’80%. Questo nonostante la legge – all’articolo 9 – reciti espressamente: “Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale”, obbligando dunque le strutture pubbliche a garantire l’IGV.

Ciò dimostra esattamente che un diritto conquistato e sancito per legge ormai da 42 anni viene continuamente messo in discussione e violato e, quindi, come qualsiasi altro diritto sociale, debba essere continuamente difeso, perché è proprio l’assenza di lotte che – per vari motivi e cause, anche transnazionali – ha socialmente preso piede almeno negli ultimi trent’anni, a consentire l’erosione, se non l’abolizione, di diritti conquistati.

Il femminismo, in conclusione, non va inteso come una rappresentazione di libertà individuali di donne appartenenti alla classe dominante, ma più propriamente come un insieme di idee, di istanze (e, dunque, come lotta vera e propria) collettive, sociali, incuneate direttamente all’interno di una lotta comune al sistema capitalista e alle sue sovrastrutture, ovvero a ciò che è origine – come dicevamo – di ogni tipo di discriminazione e di sfruttamento.

Occorre riappropriarsi delle lotte; occorre togliere, ad esempio, dalle mani delle donne borghesi la pretesa di condurre altre donne – secondo il loro punto di vista, subalterne, dunque incapaci di teorizzare e agire – attraverso pseudo-battaglie individualiste, verso la reiterazione perpetua degli squilibrati rapporti di classe (e, quindi, di genere) interni al capitale; ma occorre anche, dall’altro lato, prendere atto che esiste tuttora un problema di rapporti economici, sociali e culturali tra uomini e donne.

L’avvenuta scissione, ad opera dell’egemonica borghesia progressista, tra “diritti civili” e “diritti sociali” deve essere ricomposta, perché i primi vengono di fatto vanificati in assenza dei secondi. Così come, “a sinistra”, occorre prendere atto del fatto che i suddetti diritti civili e sociali debbano essere tutelati/rivendicati entrambi e attraverso lotte comuni.

Solo in questo modo potremo modificare radicalmente la società.

Il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo di vita sociale, politica e spirituale in generale. Non è la coscienza dell’uomo che determina il suo essere, ma, al contrario, l’essere sociale è ciò che determina la sua coscienza” (Karl Marx)


[1]https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/05/01/primo-maggio-piu-donne-al-lavoro-ma-italia-penultima-in-ue-investire-i-soldi-di-quota-100-in-asili-nido-partendo-dal-sud/5144897/

[2] https://www.trovanorme.salute.gov.it/norme/dettaglioAtto?id=22302

[3]https://www.globalist.it/politics/2019/03/25/la-lega-vuole-stralciare-la-legge-sull-aborto-in-parlamento-ci-stanno-gia-lavorando-2039182.html

3 Replies to “Femminismo, riflessioni per una ricomposizione delle lotte”

  1. donnedellaportaaccanto says: 7 Maggio 2020 at 12:56

    Riflessione fondamentale, davvero. Se ti va di partecipare a un dibattito sul tema ti segnaliamo questo evento la settimana prossima https://www.facebook.com/events/280813029747685/
    Discuteremo di molti dei temi che hai trattato qui e di come è possibile ripensare il femminismo per le giovani donne di domani.

    1. agatamicia says: 7 Maggio 2020 at 13:55

      grazie!
      ascolterò molto volentieri la diretta il 12 maggio.

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