“The die is cast”, così gli inglesi traducono la celebre locuzione latina del passaggio del Rubicone; così Trump dichiara una sorta di guerra all’Iran, rispondendo all’ondata di rivolte popolari che in Iraq hanno visto l’assalto all’ambasciata statunitense, simbolo di un’odiosa, lunga e brutale occupazione, uccidendo in un attentato terroristico all’aeroporto di Baghdad 10 persone due dei quali alti profili militari. Qassem Soleimani, capo della milizia Al-Quds, unità d’élite della Guardia Rivoluzionaria iraniana, figura di primissimo rilievo per la dirigenza iraniana e Abu Al-Muhandis, dirigente di rilievo di Al-Hashd, milizia sciita delle forze armate irachene che cooperano strettamente con gli iraniani per combattere l’occupazione e il terrorismo.
Il dado lanciato da Trump pertanto si configura come uno schiaffo in piena regola a Teheran, una provocazione ai limiti della dichiarazione di guerra, una guerra di fatto in corso da tempo nella forma forse meno appariscente, ma non per questo meno terribile, delle sanzioni. Gli Stati Uniti si dimostrano per l’ennesima volta la più grande minaccia alla pace nel mondo, il primo fra gli Stati canaglia. Quest’azione bellica scellerata contro l’Iran potrebbe risolversi in un conflitto di proporzioni enormi. Per adesso, le reazioni iraniane sono state di lutto e condanna per l’attentato. L’Iran sicuramente farà di tutto per evitare il peggio, del resto rispondere parimenti con un attacco a questa provocazione significherebbe guerra, una guerra che per la portata devastante non è certo nell’interesse degli iraniani. Inoltre, fornirebbe la scusa perfetta agli imperialisti statunitensi per poter giustificare l’ennesima sanguinosa aggressione del Medioriente, che tuttavia potrebbe risolversi in un pantano gigantesco per gli stessi predoni.
La prospettiva di una guerra non conviene pertanto a nessuno; l’Iran dunque potrebbe optare per una strategia più fruttuosa e meno diretta, cioè quella di continuare con la pressione sugli occupanti persistendo a supportare la resistenza irachena e mettere i governanti dell’Iraq davanti alla prospettiva reale di liberarsi una volta e per sempre dall’occupazione yankee. Una richiesta formale e dura da parte del governo per uno ritiro immediato delle truppe di occupazione significherebbe ribaltare il bullismo trumpiano costringendolo ad ingoiare i dadi della guerra che il presidente USA ha lanciato con tanta sicumera e metterlo davanti alla prospettiva di ritirarsi definitivamente dall’Iraq oppure arroccarsi in una occupazione e in un conflitto che vedrà le masse mediorientali unite in una lotta di liberazione di enormi proporzioni e di respiro globale.
Se davvero l’aggressività USA porterà alla guerra aperta allora bisognerà lottare energicamente in supporto alla resistenza contro l’imperialismo statunitense. Da parte nostra dobbiamo evitare ad ogni costo qualsivoglia coinvolgimento italiano in questa ennesima barbarie. Aprire il fronte contro la guerra imperialista nel cuore dell’impero stesso (e nelle sue province). Del resto, le profonde e riverenti leccate profuse da Salvini, leader del primo partito italiano e possibile prossimo Presidente del Consiglio, non fanno sperare nulla di buono e anzi rafforzano la necessità di una profonda presa di coscienza per una necessaria opposizione ad ogni possibile azione bellica. L’esempio dei camalli di Genova che si sono opposti energicamente all’invio di armi ai Sauditi massacratori e distruttori del Yemen (con la complicità dei briganti yankee e sionisti), deve essere fonte di ispirazione per tutti; anche per tutte le persone al mondo, cittadini statunitensi in primis, che amano sinceramente la pace e provano disgusto e rabbia per l’imperialismo della propria borghesia.
Solo con un’azione congiunta – come per il Vietnam – fra opposizione interna alla guerra e resistenza dei popoli all’aggressione imperialista, i predoni del mondo potranno crollare sotto il peso dei propri crimini.
NO ALLA GUERRA, MORTE ALL’IMPERIALISMO!