È isolato un Paese che non riconosce Juan Guaidó – il deputato venezuelano recentemente salito alla ribalta delle cronache – quale “autoproclamato” Presidente della Repubblica bolivariana del Venezuela, come da mesi ci stanno ripetendo i media di massa?
A dire il vero siamo in una situazione del tutto inversa, poiché a essere isolati in questo caso siamo “noi”, intesi come “Occidente”. Se guardiamo alla realtà dei fatti, Guaidó è stato riconosciuto solamente da una trentina di governi, tutti appartenenti all’area capitalistica occidentale e capitanati dagli Stati Uniti d’America. Nel dettaglio, dai paesi dell’area nordamericana, da quelli latino-americani diretti da governi neoliberali, dall’Australia e dall‘Europa. La quale però si è presentata in ordine sparso all’appuntamento col golpe, non riuscendo a giungere a una posizione comune tra i suoi Stati membri. Mentre l’asse Francia-Germania e satelliti (compresa la Spagna guidata da un esecutivo “socialista”) si allineavano immediatamente alla manovra statunitense, l’Italia, per ragioni di equilibri governativi tra alleati, non riusciva a dichiarare appoggio formale a Guaidó; anche la Grecia di Tsipras non riconoscevano il golpista, così come l’Irlanda e la Norvegia si astenevano dal prendere posizione. Una incertezza cui ha provato a mettere una pezza il Parlamento Europeo, con una mozione – velleitaria per quanto indicativa della deriva reazionaria delle forze liberali continentali – intesa a spronare gli Stati membri a disconoscere Maduro e seguire acriticamente la linea di Washington. Persino il Giappone, fedele vassallo atlantico in Asia, ha preferito non prendere le parti degli USA in questa circostanza.
Tutto il resto del mondo invece – a partire dall’Asia, al Medioriente, dall’Africa, all’America Latina progressista – ha riconosciuto e riconosce, come la ragione vuole, Nicolas Maduro quale Presidente del Venezuela. Sulla questione della presunta legittimità di Guaidó assistiamo quindi a una macroscopica manifestazione della parzialità degli organi di governo e di stampa. Ci ritroviamo, in realtà in un piccolo club, che si autodefinisce comunità internazionale quando invece rappresenta solamente una parte, per di più ultraminoritaria, di essa. Un fatto questo che non traspare dai nostri media: è del tutto evidente che c’è anche una sorta di eurocentrismo insito nella narrazione borghese dominante. Eppure a ben vedere lo certifica anche l’ONU che riconosce solo Maduro quale legittimo Presidente. Antonio Guterres, segretario generale della Nazioni Unite, non ha potuto non prendere atto, già sin dall’inizio di questa vicenda (si veda in proposito la lettera di risposta a Juan Guaidó nell’immagine e seguendo il link) che la maggioranza dei paesi dell’Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza rifiutavano di prendere sul serio le pretese di Guaidó.
Quindi, mentre la stragrande maggioranza dei paesi membri dell’ONU sostiene implicitamente o esplicitamente Nicolas Maduro, una sparuta minoranza sta con l’autoproclamato Guaidó. In termini demografici, la sproporzione è ancor più impressionante: stiamo parlando di governi che rappresentano l’80% dell’umanità, la quale rispetta le norme basilari del diritto internazionale, contro una restante minoranza golpista. Le forze in campo sono dunque chiare: c’è chi viola le regole della democrazia nei rapporti internazionali e chi le rispetta. La questione intorno alla legittimità di Maduro non si pone quindi al di fuori dell’area capitalistica occidentale. Nessun altro in giro per il mondo si sognerebbe di mettere in discussione un Presidente come Maduro, eletto per di più nel rispetto della stessa legalità borghese. C’è pertanto qualcosa di più profondo che spinge ad accendere questa crisi e proiettarla sul davanti della scena.
Quale dittatura
Di certo è un’ovvietà ribadire che il diritto internazionale e la non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano dovrebbero essere la base minima per relazioni paritarie tra le nazioni. Più complesso il discorso per quanto riguarda la dittatura o la democrazia, intese in maniera superficiale e formale come di solito è costume nel discorso comune, rispetto a quanto accade in Venezuela. Alcuni argomentano – nel difendere le ragioni del Venezuela bolivariano accusato strumentalmente di essere una “dittatura” o un “regime autoritario” – che il Venezuela “non è affatto una dittatura”, ma che se anche lo fosse, saremmo ipocriti noi a scagliarci contro di essa in quanto, “noi (cioè i regimi borghesi occidentali) commerciamo con altre dittature”, magari “ben più feroci” (pensiamo ai regimi arabi reazionari come le monarchie del Golfo), senza che questo susciti scandalo o riprovazione alcuna. Benché questo sia un discorso per certi versi valido al fine di contestare le pretese americane di interventi umanitari selettivi, e di certo non privo di elementi di verità, è opportuno segnalare che si tratta di una narrazione comunque subalterna a un modo di vedere i rapporti politici all’interno delle nazioni peculiare all’ideologia liberale borghese nella sua variante “anti-totalitaria”. Secondo questa visione, il mondo si dividerebbe in democrazie – sottointeso, liberali di stampo occidentale – e dittature, autoritarie o totalitarie (a seconda del grado di ostilità che gli riserviamo), cioè indistintamente tutto il resto del mondo. Anche quando commerciamo, ci alleiamo o ci relazioniamo con “le dittature” lo facciamo allora da un’ottica di democrazia, che sbaglia magari, che “dimentica i suoi valori”, ma pur sempre di autoproclamata democrazia si tratta. È chiaro l’assunto aprioristico, suprematista e quasi religioso insito in tale, inverificato, postulato. E se “i valori” delle democrazie liberali nei regimi borghesi fossero al contrario proprio quelli che si esprimono nelle azioni terribili di cui la guerra imperialista è solo una delle manifestazioni?
La questione è invece un’altra e va impostata in un altro modo: il punto è che hanno preso il potere in Venezuela – nel corso di un processo di lotta per emancipazione portato avanti dalle classi subalterne – delle forze socialiste, comuniste, antimperialiste che intendono ribaltare i rapporti sociali interni a quel paese. Ora, tali “rapporti da ribaltare” sono quelli che legano storicamente l’alta borghesia venezuelana al capitale monopolistico internazionale, cioè quello che fa capo agli Stati Uniti d’America. L’obiettivo minimo è quello di redistribuire ricchezza, far uscire milioni di persone dalla povertà e allargare l’ambito della partecipazione democratica. In quest’ottica, sarebbe allora già più corretto dire che prima c’era in Venezuela la dittatura dell’oligarchia legata a doppio filo con gli imperialisti statunitensi, particolarmente dispotica e autoritaria nei confronti dei poveri e dei lavoratori; oggi invece c’è la dittatura, o se vogliamo, il potere delle masse popolari – che si riconoscoscono nel PSUV di Chavez e nel fronte di partiti e movimenti che sono venuti a comporre l’alleanza bolivariana – le quali cercano di estrarsi da questa situazione di subalternità storica nei confronti dell’imperialismo, il quale opera tramite la sua articolazione locale rappresentata dalla borghesia e dalle destre nazionali. Ed è lì dentro che si gioca la partita strategica ed è per questo che i nostri media e i nostri governi – legati al grande capitale finanziario, lo stesso che sostiene Guaidó – non potendo accettare l’emergenza di un processo rivoluzionario di questo tipo, disinformano.
Cosicché il punto centrale non è a mio avviso difendere dall’accusa di dittatura il Venezuela sulla base della “nostra” interpretazione di libertà, democrazia etc sottolineando, ad esempio, come un regime reazionario e illiberale tipo l’Arabia Saudita – giustamente citato come pietra di paragone negativa nei confronti dell’ipocrisia liberal-umanitaria occidentale – sia nostro alleato. Il punto è che se davvero vogliamo usare questa categoria di dittatura declinata in maniera volgare come si usa fare oggi, dovremmo applicarla in primis al peggior dispotismo planetario esistente: quello praticato dall’imperialismo – che vade gli Stati Uniti alla sua testa – con la sua pretesa di dettare legge ovunque ritenga che i suoi interessi non siano rispettati o garantiti a sufficienza, al punto di scatenare guerre e destabilizzazioni permanenti responsabili di milioni di vittime. Questa allora potrebbe essere considerata come la vera dittatura contemporanea, contro la quale dovremmo scagliarci con assoluta priorità.
Tutto questo accade perché siamo in una fase che potremmo chiamare di ricolonizzazione del mondo. Di ricolonizzazione atlantica per la precisione: un progetto, a spinta statunitense, che si è imposto ormai e prevede la riconquista di tutti quegli spazi e di quelle aree ribelli che si erano sottratte nel corso del XX° secolo al dominio occidentale. L’America Latina è particolamente investita da questa spinta espansionista, dato che la borghesia imperialista la considera storicamente, secondo la famosa dottrina Monroe, come “il cortile di casa”; dove l’amministrazione USA controlli il sub-continente in modo che i capitalisti possano sfruttarne liberamente le risorse. Ebbene, nel corso del XX° secolo, dei processi come la rivoluzione castrista a Cuba o il sandinismo in Nicaragua hanno spezzato l’incantesimo, rotto definitivamente con questa pretesa coloniale. Il chavismo non ha fatto altro che mettersi sulla scia di questi processi rivoluzionari vittoriosi, benché con una rottura meno forte rispetto a Cuba, dove si è imposta una rivoluzione che ha liquidato completamente le strutture del potere borghese di Batista (quindi gli appigli che l’imperialismo aveva all’interno del Paese tali da poterne manipolare la politica interna a fini eversivi), mentre in Venezuela ciò non è avvenuto per il momento.
Ma parliamoci chiaro: Batista è stato per Cuba quel che Guaidó è oggi per il Venezuela; assistiamo alle stesse manifestazioni di classe: ovvero i ricchi, gli strati sociali dominanti di un paese legati a doppio filo con il capitale internazionale formare un’alleanza che pretende imporre una legge semi-coloniale sulle popolazioni autoctone e sulle classi subalterne.
L’oro del Venezuela
La questione delle disputa nata intorno all’oro del Venezuela è indicativa delle difficoltà inaudite e impreviste che deve fronteggiare un Paese non allineato. In breve: all’incirca il 10% delle riserve venezuelane, corrispondente a un miliardo di dollari sotto forma di oro sugli otto del totale di riserve detenute dalla Banca centrale del Venezuela, è depositato nella Banca d’Inghilterra. Ebbene, la Banca d’Inghilterra si è recentemente rifiutata di rispondere alle richieste del governo venezuelano di restituirgli tali riserve auree sovrane. Perché mai? Nessun contenzioso, né economico né legale, si cela dietro tale diniego; si è trattato semplicemente e brutalmente, come palesemente ammesso dagli interessati, di un ottemperamento all’ingiunzione degli Stati Uniti d’America, che in preparazione dell’aggressione con l’autoproclamazione di Guaidó intendevano mettere ancor più in difficoltà il governo bolivariano. In pratica, si è trattato di un furto.
Questo è un esempio clamoroso di quel che potremmo definire senza esitazioni banditismo imperialista. Oltre a un’umiliazione del paese in questione, si infligge ad esso un sostanziale ammanco economico; lo si priva delle leve per poter disporre della propria ricchezza al fine di sopperire a mancanze economiche anch’esse spesso dettate da altro tipo di sanzioni imperialiste. Quindi a ben vedere l’attacco è concentrico, a ogni livello, e questo episodio dell’oro sequestrato – ripetiamo, sotto ingiunzione statunitense a dispetto di qualsiasi legge o contratto commerciale stipulato tra la Banca d’Inghilterra e il governo venezuelano – è lo specchio di quanto le potenze capitalistiche dominanti, in virtù del possesso quasi monopolistico, loro sì, delle leve centrali del potere economico-finanziario globale, possano in maniera dispotica e sommamente autoritaria, fare quel che vogliono al di là di qualsiasi controllo.
Nota a margine: a copertura ideologica di questo furto, gli imperialisti hanno fatto in seguito circolare su tutti i media borghesi americani – e quindi a cascata anche qui nella provincia dell’impero italiana – elementi di linguaggio secondo cui Maduro “rischia di impadronirsi dell’oro del Venezuela, vuole fuggire col bottino, e allora gli Stati Uniti starebbero impedendo al dittatore di scappare con la ricchezza del paese”, ricchezza che lui avrebbe “sottratto” a una “popolazione che sta morendo di fame”. Naturalmente, questa è una visione a tal punto falsa e fantasiosa che non dovremmo neanche stare qui a confutarla, se non fosse il discorso dominante che ci invade e pervade tutto lo spazio pubblico, quotidianamente.
Quale crisi?
Non sarà mai sottolineato abbastanza, quando si parla di crisi venezuelana, come essa dipenda fortemente dallo stangolamento imperialista in cui è costretta l’economia di questo paese. Certo è indubbio che tale economia dipenda molto dal petrolio e presenti debolezze strutturali storiche; che sia gravata certo da insufficienze e inadeguatezze da parte del governo (ma quale governo è esente da imperizia?); inoltre è limitata non avendo una base industriale larga, al punto da poter facilmente essere esposta a fluttuazioni di vario tipo. Eppure, nonostante tutte queste criticità, la crisi economica del Venezuela è una crisi relativa, non è la crisi assoluta di un “paese devastato” e “alla fame”, per quanto le sanzioni e disfunzionamenti abbiano toccato anche duramente dei settori importanti – in particolare ad esempio nell’importazione delle medicine e nel campo medico in generale. Tuttavia, la questione diventa molto politica, laddove politico e economico in realtà si fondono. Per fare un controesempio al fine di illustrare il nostro punto di vista, prendiamo ancora l’Arabia Saudita: una Monarchia assolutista la cui economia dipende interamente dal petrolio ancor più del Venezuela. La quale però non sembra vivere nessun tipo di “problema”, perlomeno non gli stessi del Venezuela, poiché semplicemente non è strangolata dalle sanzioni, minacce e manovre da parte di chi, forte della sua posizione di centro capitalistico dominante planetario, cioè gli Stati Uniti d’America che controllano col dollaro e con l’esercito il commercio e la finanza mondiale, può decidere arbitrariamente e unilateralmente chi colpire.
Esiste quindi oggettivamente una questione di posizionamento di campo che non può essere elusa quando trattiamo di tali questioni. Episodi come il sequestro dei conti correnti sovrani, dell’oro e delle sanzioni unilaterali, rientrano nel campo di una lotta gigantesca che è una lotta tra imperialismo e resistenza, ma è anche al contempo una lotta di classe, perché come abbiamo accennato sopra in governo venezuelano non fa altro che cercare di redistribuire – e con un certo succeso – ricchezza, dunque potere, alle classi subalterne, cioè i lavoratori, le minoranze, una parte della piccola borghesia, parti sociali che per decenni sono state trattate da schiavi, senza diritti di nessun tipo, da parte di un oligarchia che li sfruttava senza ritegno. E qualora vi fosse un successo duraturo del socialismo bolivariano, esso rischierebbe di “contaminare”, “dare cattive idee” alle masse sfruttate negli altri paesi latini schiacciati dal neoliberalismo al servizio di Washington; di imprimere un nuovo impulso a cambiare gli assetti sociali, quindi scardinare l’assetto geopolitico attuale nell’area; e fratturare il dominio del Capitale monopolistico sulla regione alimentando in prospettiva crisi di egemonia nei centri imperialisti, privati di mercati e risorse da sfruttare per alimentare i profitti dei grandi gruppi ed elargire così contentini sotto forma di sovvenzioni, abbondanza di risorse e Stato sociale alle classi medie, zoccolo duro dei regimi borghesi occidentali.
Petrolio e risorse
Il petrolio dunque: John Bolton, consigliere speciale di Trump, non ha fatto mistero di puntare anche all’appropriazione diretta di quello del Venezuela [video]. Tuttavia il nocciolo della questione non risiede nel mero accaparramento economico di risorse altrui, benché questo aspetto sia una parte del tutto. Il nocciolo della questione è che il petrolio è sì una merce preziosa per le filiere industriali e finanziarie occidentali, ma soprattutto – ed è questo che conta davvero -, un’arma economica di distruzione di massa, da spendere per il controllo geopolitico e quindi di tutela dell’egemonia della potenza planetaria dominante. Non conta tanto averne, in questa fase, quanto essere capaci di privarne eventuali competitori, o manipolarne il valore in modo da distruggere economie che da esso dipendono in maniera eccessiva, oppure gestirne i flussi e controllarne la logistica in modo da ricattare in permanenza, da una posizione di forza assoluta, qualsiasi paese al mondo, dato che tutti ad oggi dipendono dalle energie fossili.
Come la realtà ne fa prova ogni giorno, esso è un’arma di pressione di cui dispone il cartello dominante – cioè quello che fa capo agli Stati Uniti i quali controllano gli Stati vassalli del Golfo (e in questo senso, ritornando all’Arabia Saudita, non possiamo non vedere si tratti di un semplice strumento della volontà emanante dalla dittatura centrale, quella USA, nella regione) – atto a strangolare quelle economie che non hanno saputo diversificarsi, ma che non lo hanno fatto pur sapendo di essere nel campo “sbagliato” cioè antimperialista, della storia. Infatti come accennato l’Arabia Saudita non ha avuto bisogno di diversificarsi, la Norvegia vive benissimo con la sua rendita petrolifera, mentre ad esempio Russia e Venezuela risentono pesantemente di questo fattore “petrolio”. Per questo ad esempio una nazione come la Cina (che non dispone di ingenti riserve petrolifere benché disponga di altro tipo di riserve) ha capito a suo tempo che avrebbe dovuto espandere e differenziare la propria base industriale al fine rendersi economicamente indipendente, relativamente inattaccabile da parte dei centri imperialisti: condizione sine qua non per promuovere con successo una strategia di sviluppo autonoma nelle attuali condizioni. Quindi l’insegnamento è che il petrolio è un’arma a doppio taglio, ma è un’arma a doppio taglio in particolare per le nazioni che si pongono in opposizione ai poteri egemonici. Come sempre, c’è la barricata di mezzo, e dipende da che parte si sta.
* Questo articolo è tratto dal mio intervento nell’episodio 0 di Guerriglia Radio dedicato al Venezuela: “Il Caso Venezuela“. Consiglio vivamente l’ascolto del podcast sopratutto per approfondire le questioni costituzionali ed economiche appena accennate nell’articolo, al fine di avere un quadro più chiaro, completo e fuor di propaganda imperialista della situazione venezuelana.
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