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La Cina è capitalista? Intervista a Rémy Herrera

La Cina è capitalista?

di Alberto Ferretti

“La Cina è capitalista?”. Questo il titolo del nuovo di libro di Rémy Herrera (economista marxista francese, ricercatore al CNRS e alla Sorbona, Parigi) e Zhiming Long (economista marxista cinese della Scuola di Marxismo all’Università Tsinghua, Pechino), uscito a Marzo per le Éditions Critiques. Gli autori intendono smentire stereotipi e incomprensioni sulla Repubblica popolare cinese, ripercorrendo la storia dello sviluppo economico del paese dal 1950 a oggi. L’intervista che trascriviamo è stata realizzata da Le Média, un nuovo media alternativo legato alla sinistra francese.

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Il vostro è un libro controcorrente. Presenta un punto di vista piuttosto raro in Francia, che merita di essere segnalato e discusso. Innanzi tutto, come fate notare, quando si parla dell’economia cinese spesso lo si fa attraverso un prisma occidentale, usando dati prodotti da occidentali: secondo voi, ciò falsifica la visione che noi abbiamo del successo cinese.

Esattamente, ed è un punto fondamentale. Tutti infatti hanno un’opinione sulla Cina, ma che rischia di non essere necessariamente ben fondata. Ciò è dovuto, secondo noi, alle difficoltà rappresentate dalla lingua e dalla lontananza geografica. Difficoltà che rendono in qualche modo inaccessibili gran parte dei dibattiti interni alla Cina e che obbligano passare attraverso questo prisma occidentale. Uno sguardo esterno che occupa in pratica la totalità della nostra percezione della Cina. E questo è un problema, esso è dovuto innanzi tutto a una difficoltà di accesso ai dati, ma non certo perché le statistiche cinesi siano nascoste – al contrario esistono, sono molto numerose e diffuse. Tuttavia sono nella maggioranza dei casi in cinese, cosa che le rende di difficile utilizzo. Queste statistiche sono, contrariamente all’opinione comune, abbastanza serie, ben costruite e relativamente affidabili e questo da molto tempo – grazie all’Ufficio nazionale di statistica che esiste dal 1952. Tuttavia possono risultare incomplete, per noi che avevamo bisogno di un certo numero di indicatori che non esistevano oppure, laddove esistevano, non erano esenti da imperfezioni. In particolare, riguardo le serie storiche di stock di capitale, molto più complesse del Prodotto interno lordo; […] o riguardo quello che l’economia dominante neoliberale o neoclassica chiama “il capitale umano”. Ebbene, noi cercavamo degli indicatori un po’ più “umani”, per così dire, un po’ meglio costruiti di quelli che già esistevano nelle banche dati delle organizzazioni internazionali o dei ricercatori occidentali.

Per queste ragioni abbiamo svolto un lavoro preparatorio, che è durato diversi anni, di ricostruzione e a volte di costruzione ex novo di serie storiche, per poter mantenere innanzi tutto una coerenza concettuale in relazione alla teoria che sottende il nostro lavoro – noi siamo marxisti, quindi accordiamo molta importanza alla coerenza tra le statistiche e i concetti e teorie usati a monte – ma anche per conoscere esattamente e manipolare correttamente tutta la produzione scientifica. […] Abbiamo ricostruito i dati a partire da quelli delle organizzazioni internazionali, le quali, cosa molto problematica, sono dominate quasi sempre dalle potenze occidentali. Vede, quel che si è cercato di fare corrisponde a uno sforzo per sottrarci a una sorta di eurocentrismo. Poiché occorre davvero fare uno sforzo per considerare la Cina per quel che è: un paese immenso per dimensioni e demografia, per la sua storia e la profondità della sua cultura e della sua civilizzazione. C’è anche una complessità che va rispettata, non è lecito giungere a conclusioni frettolose a proposito della sua economia o ancor più della sua società. Eppure spesso i media dominanti hanno interesse a voler concludere frettolosamente, fino a farci considerare come una cosa del tutto evidente, il fatto che la Cina sarebbe capitalista, senza neanche averne seriamente discusso.

Voi siete in rottura, divergete, con gli altri economisti classici sul fatto che ci sarebbe una strategia di sviluppo complessiva, elaborata da subito sul lungo termine, che ha posto le condizioni dell’odierno successo economico.

Assolutamente. Ci sono molti studi estremamente interessanti pubblicati sulla Cina che hanno suscitato dibattiti. Penso ad esempio ai lavori di Michel Aglietta, con coautori cinesi spesso, il quale stabilisce una continuità tra la Cina contemporanea e il passato imperiale, continuità che si riscontrerebbe sino al modo di direzione e di funzionamente del PCC. Tutto ciò interessante, ma non credo sia sufficiente, poiché la vera continuità è precisamente quella che è legata all’elaborazione e alla messa in pratica di questa strategia di sviluppo che salda due periodi della storia dell’economia cinese che si ha tendenza a mettere in opposizione diametralmente e brutalmente: cioè il periodo maoista – o comunista, socialista, chiamiamola come vogliamo, insomma il periodo che precede le grandi riforme del 1978 – e gli anni seguenti, il periodo post Mao. La Cina di oggi è il prodotto di questo passato socialista.

Tuttavia, il pensiero dominante è molto abile, ed è riuscito a farci credere che il tasso di crescita economica del paese è passato dalla stagnazione, dallo 0 degli “orrori del comunismo” durante il periodo di Mao, a una crescita esponenziale, miracolosa, per magia, appena il capitalismo è stato adottato, appena la Cina si è convertita al capitalismo. Questo è assolutamente falso, le cifre dicono il contrario. Le statistiche della Banca Mondiale mostrano come la Cina, per quanto riguarda l’economia, abbia conosciuto molto presto e in ogni settore una forte crescita: l’agricoltura ovviamente, l’industria, i servizi (nonostante siano considerati come un settore  tradizionalmente disfunzionale in Cina). La Cina ha conosciuto molto presto – appena passate le turbolenze degli anni che hanno seguito il trionfo della rivoluzione, che ha permesso di riunificare il territorio nazionale continentale – un forte tasso di crescita.

Quindi secondo la vostra tesi non è stata la morte di Mao a innescare il decollo economico della Cina?

Certamente no. Gli anni 1977-78 sono indubbiamente anni di svolta, che segnano “un’apertura”, ma non si tratta di un cambiamento di strategia di sviluppo, è anzi, in un certo senso, la ridefinizione della pianificazione socialista al fine di renderla più performante. Una maniera di garantire la sopravvivenza e il prolungamento di questa strategia di sviluppo sul lungo termine.

Concretamente, voi dite che la crescita economica nella Cina maoista fu molto elevata. Ma come è stato possibile? Quali sforzi sono stati fatti sotto il socialismo per permetterlo; quale strategia di sviluppo è stata implementata concretamente all’epoca?

Innanzi tutto, questa strategia di sviluppo – che è stata abbozzata molti anni prima della presa del potere (ricordo che il trionfo della rivoluzione nel 1949 è preceduto da più di 30 anni di guerra civile e contro le occupazioni imperialiste) – ha messo fine a un lungo secolo di caos, di guerre e sottomissione alle forze straniere, che avevano caratterizzato la storia della Cina dalla Guerra dell’Oppio.

Quindi stiamo parlando in realtà della strategia della presa del potere, piuttosto che in termini economici?

Intendo che il primo elemento di coesione e di rinascita portato dalla strategia di sviluppo elaborata sotto Mao, è stato quello di mettere fine alla disgregazione e alla sottomissione del Paese. Il primo sforzo è stato quello di riunificare il territorio nazionale. Poi,di porre le basi, le condizioni sine qua non dello sviluppo: ossia il progresso sociale, attraverso le grandi conquiste sociali come l’istruzione, la sanità, l’estensione delle infrastrutture di base. 

Quindi ci sono stati degli investimenti in istruzione, ricerca e sviluppo?

Sì, si è investito da subito in questo campo, pazientemente ma solidamente, perché attenzione, un sistema di ricerca e sviluppo non si costruisce in un attimo, occorre costruire un sistema d’istruzione nazionale, ed è quello che è stato fatto rapidamente. E già dopo 10/15 anni i primi risultati in termini di ricerca e sviluppo erano stati raggiunti. Poi chiaramente c’è stato uno sforzo colossale sul piano economico: da un parte grazie alla riforma agraria, forse ancora oggi l’eredità più preziosa della rivoluzione maoista, che ha portato l’accesso alla terra per i contadini. Una cosa di cui forse non misuriamo correttamente la grandezza, ma si tratta forse della chiave del successo cinese, benché spesso passata sotto silenzio. Si dimentica infatti troppo spesso il contributo dei contadini allo sforzo di crescita, ma anche il loro contributo allo sforzo nel trasferimento di risorse dall’agricoltura verso l’industria. Infatti, grazie alla collettivizzazione dell’agricoltura – che è stata eseguita in maniera estremamente prudente, producendo risultati molto positivi sia sul livello di produzione sia su quello della produttività del lavoro – delle risorse furono trasferite verso l’industria e il processo di industrializzazione è stato condotto fin dall’origine. Innanzi tutto nell’industria pesante, poi gradualemente verso industrie leggere e di beni di consumo. Lo sforzo ha anche riguardato il controllo della moneta, della banca e della finanza, che è una delle caratteristiche maggiori del sistema cinese attuale.

Tutto ciò dovrebbe interrogarci, in Francia, in Europa, dove i destini dei nostri popoli europei sfuggono dal loro controllo, sono nelle mani di burocrazie di Bruxelles esse stesse sottomesse a un’oligarchia finanziaria globalizzata: si è rinunciato nella nostra area al controllo della sovranità monetaria. Insomma, ci sono molte piste di riflessione per noi oggi. Certo, non si tratta di prendere questo paese come modello, non avrebbe senso in primo luogo perché la Cina non si rivendica come un modello e perché le situazioni sono difficilmente comparabili. Tuttavia, in termini di politica economica, in termini di apertura del dibattito, in termini di rottura di tabù, la Cina ha di certo alcune cose da insegnarci. A condizione di avere la modestia di voler imparare.

Vorrei ritornare un attimo sulle grandi riforme agrarie, che secondo voi sono la chiave. La proprietà collettiva della terra nelle zone rurali, è ancora oggi il modello dominante?

Sì, in larga parte è questo il modello attualmente dominante, e si tratta di un elemento di continuità tra il ’49 e oggi. Certo, non si tratta di negare i problemi che esistono: ad esempio la cessione di terre da parte dei governi regionali per differenti ragioni, come quelle di alimentare le casse dei budget locali, quindi dei conflitti con masse spesso importanti di contadini espulsi dalle loro terre, o i problemi dei migranti. Non stiamo certo qui idealizzando la situazione in Cina, piuttosto tentiamo di conservare una certa lucidità, una certa obiettività, un certo ottimismo. Quel che è certo è che c’è la proprietà statale al livello nazionale, e collettiva al livello locale, della terra. Questo garantisce l’accesso alla terra per i contadini. Si tratta della rivendicazione primaria dell’immensa maggioranza di contadini sulla terra, che siano essi in India, Brasile, Africa del Sud, Indonesia; è forse la rivendicazione più importante. Ebbene, questo può essere fatto solo tramite una riforma agraria condotta fino in fondo. Ossia, per dirlo chiaramente e brevemente, inserita in una rivoluzione socialista. La Cina l’ha fatto, altri l’hanno fatto (come il Vietnam). Questa è secondo me la chiave di tutto l’edificio, dato che la Cina e rimasta per moltissimo tempo un paese agricolo. Oggi è di certo un po’ di meno, ma il posto dei contadini è assolutamente centrale e non possiamo sottovalutare questo aspetto.

Inoltre, quando la crisi sistemica del capitalismo globalizzato nel 2007-2008, ha colpito anche la Cina nel 2009 e poi soprattutto a partire dal 2012, i dirigenti cinesi hanno avuto delle risposte a questa crisi diametralmente opposte a quelle delle nostre oligarchie finanziarie e delle nostre burocrazie. Ciò vuol dire che non si sono imbarcati in una spirale regressiva e distruttrice di riduzione dei salari, di austerità, di riduzione delle spese pubbliche, di privatizzazioni. Non è andata così in Cina, anzi hanno fatto tutto il contrario: i salari sono stati straordinariamente aumentati, in termini di potere d’acquisto, in termini reali. I redditi dei contadini sono cresciuti molto più velocemente che quelli dei lavoratori urbani. C’è stata inoltre un aumento considerevole delle spese in infrastrutture pubbliche, che hanno permesso di riequilibrare e ristrutturare il territorio economico nazionale. Nonché di sviluppare dei centri urbani ed economici di media grandezza nell’entroterra del Paese.

Approfondiamo allora il  nucleo polemico, per così dire, della vostra riflessione: “la Cina è capitalista?”. Ma prima di rispondere: l’entrata nel capitalismo sarebbe uno sconvolgimento, un accelleratore di progresso, come i liberali dicono, o no?

Sarebbe una catastrofe per la Cina. Per una ragione fondamentale: l’adozione dichiarata e rivendicata dell’opzione capitalista da parte delle élites dirigenti del partito comunista cinese e del blocco sociale sul quale si appoggiano –  principalmente i capitalisti cinesi locali e le classi medie che approfittano del dinamismo economico – rischierebbe di spezzare le relazioni vigenti tra questo blocco al potere e la grande maggioranza delle masse contadine e operaie. In breve, l’adozione del capitalismo porterebbe alla catastrofe in Cina, per essere chiari, perché rischierebbe di rimettere in discussione questa alleanza, queste relazioni win-win legate alle ricadute positive della crescita economica. Cosa vuole dire? Vuol dire che non ci sarebbe altra via d’uscita in realtà per prolungare il successo economico che la Cina sta vivendo da ormai alcuni decenni – e che ne fa la prima economia mondiale, o comunque sul punto di spodestare gli Stati Uniti come prima potenza mondiale – se non nel riorientare le sue politiche economiche nella direzione di un nuovo compromesso sociale, sviluppando al massimo le politiche sociali.

Quindi, per levare ogni ambiguità, secondo voi si tratta di un paese capitalista? Perché voi parlate di “capitalismo di Stato”, di un “capitalismo senza capitalisti” o di “un paese non capitalista ma con capitalisti”, parlate anche di “socialismo di mercato” o di “socialismo con meccanismi di mercato”… Alla fine, è un paese capitalista?

Forse lei la pensa così, noi siamo molto più prudenti. Diciamo che ci sono molti capitalisti, questo è sicuro, e molti meccanismi di mercato capitalistici. 

Ci sarebbe quindi una lotta interna nel paese tra socialismo e capitalismo, tra elementi dell’uno e dell’altro?

Questo è il minimo che si possa dire, la lotta di classe è particolarmente violenta e massiva, forse e soprattuto nelle alte sfere dello Stato. Noi facciamo una distinzione tra detentori del potere economico e detentori del potere politico; cioè è indispensabile per collocare la situazione attuale della Cina rispetto alla sua storia, una storia che risale ai suoi anni della guerra che hanno condotto poi alla Rivoluzione, ma anche prima, alla sua storia tout-court. Noi pensiamo che i detentori del potere economico non sono esattamente i detentori del potere politico in Cina. In altri termini, le classi dominanti non sarebbero esattamente le classi dirigenti. In altri termini ancora, i capitalisti cinesi, che sono molto numerosi e potenti, con dei miliardari tra di loro, nonostante i loro sforzi e malgrado il sostegno internazionale del grande capitale straniero, non sono riusciti a oggi a prendere il controllo dello Stato.

Ci sarebbero quindi due poteri in Cina: un potere economico capitalista e un potere politico socialista?

Con una gerarchia tra i due. Che sarebbe il politico sopra l’economico. Mao stesso, nelle zone che furono liberate dalla guerriglia, dall’Armata rossa dell’epoca – incluso nella repubblica sovietica di Cina che fu diretta da Mao per un certo tempo – e la leadership comunista non hanno mai cercato di appropriarsi completamente della totalità delle attività economiche. Non hanno mai cercato di espropriare economicamente i capitalisti cinesi. Capisce? Spesso però, non sistematicamente ma spesso, li ha mantenuti nel loro dinamismo e attività, nel loro affarismo diciamo, in maniera da permettere di favorire l’efficacia delle nuove forme istituzionali collettive che erano state create dal potere comunista – finanche a metterle in concorrenza in certi casi e in certi settori – ma mantenendo sempre una tutela politica al di sopra della loro testa. Ma questo non riguarda solo l’economia socialista, è una caratteristica che troviamo anche nel passato lontano del paese. Occorre rendersi conto che la Cina è stata per molti secoli la prima economia mondiale [..] fino all’aggressione britannica della guerra dell’Oppio; la Cina fu la prima economia mondiale senza essere capitalista, benché il capitalismo esistesse già in Occidente.

Quindi voi dite che i capitalisti, nell’epoca del socialismo, non sono mai scomparsi dalla Cina, neanche nell’epoca rivoluzionaria?

Assolutamente. Il loro perimetro di attività è stato straordinariamente ristretto, questo è il meno che si possa dire; ma è una caratteristica del tutto singolare del processo cinese, c’è stata una volontà di espropriare politicamente la borghesia locale, ma non di espropriarla economicamente.

Ma oggi si rafforza, ci si può domandare se non sia dominante.

Certamente si rafforza, certo che ci possiamo domandare se non sia dominante, tuttavia occorre interrogarsi realmente, concretamente, su ciò che sta accadendo. Ad esempio, abbiamo sentito molto parlare delle campagne di lotta alla corruzione. Ebbene, noi ci interroghiamo per sapere cosa potrebbe nascondere, in termini di difesa di questa tutela politica dello Stato sui capitalisti locali, cosa potrebbe dunque rappresentare questa lotta contro la corruzione. E ci pare di potere interpretare queste campagne di lotta alla corruzione – che sono molto potenti e relativamente efficaci, oltre che molto popolari, bisogna riconoscerlo (hanno rafforzato la legittimità non solo del Presidente e delle classi dirigenti cinesi ma del partito comunista cinese stesso ) – come un’inquietudine del potere centrale politico di fronte a delle alleanze sempre più aperte, stabilite, istituzionalizzate anche a volte, tra i capitalisti cinesi e il grande capitale straniero. Cioè principalmente i grandi stabilimenti bancari e finanziari, i grandi oligopoli della finanza globalizzata statunitense. Alleanze che si sono stabilite anche grazie il processo di “liberalizzazione” recente del settore finanziario cinese.

Lottare contro la corruzione è anche tentare di spezzare dei legami sempre più chiari tra questi capitalisti cinesi e il capitale straniero – capitalisti cinesi che hanno capito perfettamente il potere del PCC, ma anche quello che potrebbe apportare loro un’alleanza col grande capitale finanziario internazionale. Queste lotte contro la corruzione sono anche da leggere come una ripresa in mano del potere politico sul potere economico. Questa la nostra ipotesi, nel nostro libro non cerchiamo certo di affermare le nostre verità, cerchiamo piuttosto di riaprire uno spazio di dibattito tra di noi, nella sinistra, in modo da non accettare di essere totalmente sulla difensiva e totalmente schiacciati da un pensiero unico sotto imballaggio, pronto al consumo, imposto dai media dominanti.

Eppure questo socialismo, se è ancora dominante, non ci fa sognare, le disuguaglianze si rafforzano in Cina, uno dei paesi dove ci sono più miliardari al mondo…

Non è sorprendente di assistere alla retorica etica e morale (che non è solo vuota retorica però) sull’egualitarismo e sulla necessità di ridurre le disuguaglianze fare ritorno sul davanti della scena, nei discorsi e nei dibattiti politici in Cina.

Per parlare un po’ di politica cinese della “nuova sinistra”, di cui sappiamo poco qui in Francia, abbiamo poche informazioni, e forse lei può dirci di più: contate sulla “nuova sinistra” per mantenere il paese sulla via socialista?

Abbiamo poche informazioni perché non ci dotiamo dei mezzi per cercarla questa informazione che esiste. Potremmo averne di più, non solo sulla nuova sinistra, cioè l’ala fedele all’eredità maoista all’interno [del PCC n.d.t]…

Ci sono ancora dei maoisti in Cina?

Certo, sicuramente anche molto più all’esterno del PCC che all’interno. Ci sono delle organizzazioni “auto-organizzate” per così dire, autonome, all’esterno del partito comunista. Soprattutto delle organizzazioni contadine.

Organizzazioni legali?

Certamente. C’è un solo sindacato, e questo è un limite evidentemente, un solo partito anche [in realtà in Cina ci sono 8 partiti rappresentanti all’Assemblea del Popolo, ma probabilmente qui Herrera intende “un solo partito dirigente”, perno del sistema n.d.t.], ma ad esempio la maggior parte delle lotte per il mantenimento della proprietà collettiva della terra, che è ovviamente contestata, sono portate dai contadini autorganizzati all’esterno del PCC. Delle organizzazioni di massa, dei movimenti sociali, che prendono forme diverse.

Ci sono quindi molti movimenti in Cina? Ne sappiamo davvero poco…

Ce ne sono tantissimi. E la mia ipotesi è che se la proprietà collettiva della terra è rimasta così solida tanto a lungo è largamente grazie a queste lotte autorganizzate dei contadini.

Quindi c’è una lotta di classe oggi, ci sono dei movimenti sociali che mantengono un rapporto di forza nel paese?

Assolutamente, anche ovviamente nel mondo operaio, nei settori industriali, delle grandi lotte sociali, che probabilmente cresceranno d’importanza, si intensificheranno e si acutizzeranno. Occorre capire che l’orizzonte di questo progetto di transizione socialista che hanno i cinesi è lontano, il futuro è largamente aperto, indeterminato. Noi insistiamo molto su questo punto, non cerchiamo di affermare delle pseuduverità, perché tutto dipende dalla lotta di classe e dai suoi risultati, il futuro è assolutamente aperto. Ma quello che noi diciamo è che il futuro del socialismo non è irrimediabilmente compromesso con la caduta dell’Unione sovietica. Noi contestiamo questo consenso, intendiamo rompere questo tabù sotto le cui macerie, quelle della caduta del Muro e dell’Urss, è ancora seppellita la sinistra europea, occidentale, radicale. Non ne siamo ancora usciti: non solamente non ne abbiamo ancora fatto un bilancio, ma soprattutto questi tabù impediscono di rimettere l’esigenza del socialismo al centro della ricostruzione delle alternative. In sostanza è questo che ci manca. […] Il socialismo ritorna nel dibattito, ma c’è voluto del tempo.

Con questo libro non volgiamo solo fare un appello al rispetto di quello che rappresenta la Cina e della sua complessità, ma anche al rispetto della sua storia rivoluzionaria, nell’intento di riabilitare alcune verità, alcuni fatti, dimostrabili e dimostrati credo da noi, al fine di far capire che la Cina non è un nemico. Perché ormai le campagne mediatiche si fanno durissime. […] La Cina è sempre più presentata come, nei confronti dell’Occidente in generale, come un concorrente, certo, ma ci spaventano all’idea che la Cina intenda dominare il mondo, asservirci. Qualcosa di inquietante. Ma non è vero, la Cina non è un nemico.

Non è una minaccia?

Dipende da cosa lei intende come “‘minaccia”?

Per la Francia, per le economie europee, le economie del Nord?

Di certo è un concorrente che può piegare anche la prima economia mondiale.

Ma quando designiamo, a sinistra perlomeno, le grandi potenze imperialiste, includiamo la Cina, comunque.

Non penso che la Cina abbia un comportamento né una natura imperialista, malgrado venga presentata in questa maniera.

Eppure in Africa sviluppa delle attività economiche, è in espansione, o anche in Asia, nel Pacifico. Non siamo in un’economia imperialista?

Imperialista? No, non penso proprio. [qui segue un breve passaggio in cui l’intervistatore chiede se lui e Zhiming Long siano per caso dei “maoisti”. Herrera risponde che sono solo degli umili economisti marxisti n.d.t

Invece, penso sia estremamente importante ridare ottimismo alla sinistra, tirarla fuori da un certo compiacimento nel dividersi, nel confondersi, nel non occupare i dibattiti che sono i suoi, anche il tema del socialismo. Per questo, noi abbiamo fatto questo libro, interrogandoci da questo angolo un po’ inatteso.

Ma allora perché questa immagine, anche a sinistra, della Cina come una minaccia? C’è del razzismo, della sinofobia, la negazione della storia cinese?

C’è un po’ di tutto questo in effetti, e ci sono soprattutto gli oligopoli finanziari, i grandi gruppi bancari e finanziari – che non sono certo un’entità omogenea, né esenti da contraddizioni – ma la finanza globalizzata, principalmente statunitense, anglo-statunitense, marcia in direzione di uno scontro sempre più diretto, sempre più aggressivo, direi bellico, contro la Cina. E la risposta della Cina, che non mi sembra essere una risposta aggressiva o imperialista, è stata questa apertura di una nuova “Via della Seta”. Che è una risposta all’accerchiamento aggressivo da parte dell’alta finanza statunitense o anglo-statunitense del Paese.

Ma la situazione non è in fase distensiva nella regione? Vediamo la Corea del nord e gli Stati Uniti che dialogano…

Nella regione senza dubbio, e la Cina vi contribuisce molto. Ma lo scontro tra gli Stati Uniti e la Cina non è prossimo a una distensione.

2 Replies to “La Cina è capitalista? Intervista a Rémy Herrera”

  1. Red News | Protestation says: 9 Aprile 2019 at 23:07

    […] La Cina è capitalista? Intervista a Rémy Herrera […]

  2. Le caratteristiche generali del socialismo di mercato cinese – Ottobre says: 5 Maggio 2020 at 17:42

    […] Proponiamo la traduzione di un estratto del libro “LA CHINE EST-ELLE CAPITALISTE ?“, di Rémy Herrera (economista marxista francese, ricercatore al CNRS e alla Sorbona, Parigi) e Zhiming Long (economista marxista cinese della Scuola di Marxismo all’Università Tsinghua, Pechino), volume che avevamo già avuto modo di presentare. […]

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