Loading...

Huawei: la guerra del 5G e la superpotenza a giurisdizione globale

infrastrutture 5G di Huawei

di .manproject

Nel nostro primo articolo avevamo cercato di fare chiarezza su come la guerra alle infrastrutture per le telecomunicazioni 5G di Huawei fosse parte di un più ampio conflitto geopolitico con la Cina evidenziandone la sostanziale inefficacia, l’importanza delle ricadute commerciali favorevoli alle corporation occidentali all’interno della politica trumpiana dei dazi e la palese pretestuosità delle motivazioni. Parte di una strategia ostile pre-bellica, non certo di un’esigenza di sicurezza informatica da interpretarsi in senso difensivo. 

Alcuni lettori in seguito ai recenti sviluppi dovuti all’arresto di Meng Whanzou, CFO di Huawei, hanno riconosciuto una certa capacità di “previsione” nella nostra analisi, non trascurando la tempistica sospetta tra l’arresto di Meng e il summit tra Trump e Xi. Meng è accusata di aver violato le sanzioni statunitensi contro l’Iran. Oggi la manager e figlia del fondatore di Huawei è agli arresti domiciliari dietro cauzione milionaria in attesa che le autorità canadesi si pronuncino sulla richiesta di estradizione. Dal canto suo la Cina ha risposto ponendo in stato di arresto l’ex-diplomatico canadese Michael Kovrig, oggi rappresentate di uno di quei centri studi internazionali (ICG, International Crisis Group) dove spesso vanno a svernare diplomatici ufficiali e “ufficiosi” a fine carriera. 

Sul fronte italiano registriamo che sperimentazioni e valutazioni delle tecnologie 5G di Huawei vanno avanti da parte di tutti i maggiori Service Provider italiani, malgrado le pressioni USA abbiano già raggiunto il governo. Il tempo delle decisioni dunque non è ancora venuto e c’è da attendersi che questo potrebbe essere influenzato dal chiarirsi delle posizioni francesi e tedesche.

In questo secondo scritto ci concentreremo sulla vicenda dell’arresto di Meng, non prima però di aver segnalato un paio di altri sviluppi intercorsi nel frattempo e che trovano riscontro negli spunti proposti nel primo articolo, rafforzandone le conclusioni.

A seguito delle accuse di vulnerabilità dei chip cinesi lanciate da diversi OTT e quella in particolare diffusa da Bloomberg in un popolare report del 4 Ottobre, Supermicro, una delle aziende statunitensi i cui prodotti incorporano il Chip incriminato ha incaricato un’azienda indipendente, la Nardello & Co., di analizzare il componente. Nella lettera inviata da Supermicro ai suoi clienti nei primi giorni di Dicembre si rende noto che dall’analisi effettuata non ci sarebbe traccia della “funzione spia” o di altra vulnerabilità. Bloomberg non ha pubblicato nessuna smentita, non ha ritrattato e non ha dato ad oggi notizia di questi risultati.

Tornando invece alla rete 5G, è diventata ufficiale la decisione di British Telecom di estromettere Huawei dalla core network 5G ed è stato annunciato il probabile smantellamento degli apparati presenti sulla rete 4G attualmente in uso, decisione presa dopo che i servizi britannici avevano avallato e rafforzato le pressioni provenienti dalle agenzie governative d’oltreoceano. Si sono inoltre aggiunti ai paesi che non adotteranno tecnologia Huawei per la nuova frontiera delle comunicazioni mobili la Nuova Zelanda e il Giappone, quest’ultimo un mercato importantissimo per ogni vendor di questo settore.

Veniamo adesso all’arresto di Meng, osservando come sulla stampa occidentale il nodo legale su cui l’arresto si poggia sia stato trattato in modo per lo più frettoloso e confuso, evitando di esplicitare alcune domande le cui implicazioni sono tutt’altro che trascurabili.

La prima domanda: come è possibile che delle sanzioni unilaterali imposte dagli USA (e non condivise dalla Cina) colpiscano a livello penale la dirigente di un’azienda cinese che vende prodotti cinesi all’Iran, mentre si trova sul suolo di un paese terzo? Ci si aspetta che gli USA possano escludere dal proprio mercato un’azienda straniera che mantiene rapporti commerciali con paesi da lei sanzionati (qualcosa di simile a quanto accaduto di recente con ZTE, non a caso anch’essa cinese) e che impedisca a livello penale a un’azienda statunitense di intrattenere rapporti analoghi; ma come possono punire secondo la legge penale statunitense qualcuno che compie una transazione commerciale internazionale che coinvolge due giurisdizioni straniere, quella cinese e quella iraniana, su prodotti o servizi cinesi?

A tentare di fornire una pezza d’appoggio giuridica è intervenuto prontamente Julian Ku, professore della Hofstra University law School; una spiegazione che, sia chiaro,  mira a coinvolgere in qualche modo l’ordinamento penale degli Stati Uniti in una vicenda su cui non avrebbe a prima vista nessuna giurisdizione neppure secondo il proprio stesso sistema di leggi.
Ku ha ipotizzato che la questione potrebbe essere legata a una delle leggi statunitensi che impongono ad aziende estere, al momento dell’acquisto di una licenza su tecnologie USA, di non rivendere i componenti o i prodotti licenziati a determinate nazioni. Partiamo dalla dichiarazione di Ku perché è stata presa immediatamente in considerazione dalla stampa occidentale, come fondata o per lo meno autorevole. 

Julian Ku: “US law prohibits exports of certain US-origin technologies to certain countries. When Huawei pays to license certain US tech, it promises not to export to certain countries like Iran.”

Questo aspetto è interessante perché definisce l’ambito e il perimetro in cui gli USA si auto-attribuiscono il diritto di estendere la propria giurisdizione penale. Ad esempio, il proprietario di un negozio di computer nel sud del Turkmenistan che installasse, accedendovi online o varcando il confine a pochi km, Windows 365 presso il commercialista di un villaggio iraniano, potrebbe essere arrestato in Turkmenistan il giorno dopo o in un qualsiasi paese amico degli USA il mese successivo (dove magari si era recato con la famiglia per trascorrere le vacanze),  beccandosi 30 anni di carcere. Un caso limite? E soprattutto, quanto questo impianto punitivo può estendersi in futuro sulla base di una piccola modifica alle leggi americane o di un inasprimento delle sanzioni unilaterali? Proviamo ad esplorare le implicazioni di questa possibilità.

Certo Huawei può aver venduto all’Iran un suo server con sopra una licenza Windows o Red Hat installata su una virtual machine di gestione, ma potrebbe aver anche installato un software Huawei su hardware Huawei, contenenti un pezzo di codice il cui patent è americano, oppure un chip, o anche una semplice interfaccia ethernet, forniti da un produttore americano (il quale magari lo produce in Cina). Ora, se consideriamo che gli Stati Uniti applicano sanzioni unilaterali secondarie a diversi paesi tra cui principalmente Iran, Siria, Nord Corea, Russia e Cuba, e che la natura delle sanzioni varia a distanza di pochi mesi, quasi sempre inasprendosi e allargando il campo e la portata dei prodotti e delle transazioni coinvolte, ci si rende subito conto che un numero rilevante di persone, in ogni paese del globo, rischia di finire in carcere negli USA senza aver mai messo piede sul suolo americano.

Immaginate che un domani un francese che trent’anni fa ha aperto un chiosco sulla spiaggia cubana di Varadero acquisti da uno shop online svizzero una nuova macchina per il caffè di marca italiana nel cui display e sistema di gestione elettronica è coinvolta una qualche tecnologia statunitense, magari per rivenderlo al cognato cubano che vuole aprire un chiosco sul lungomare di Trinidad. Un anno dopo, recatosi in Quebec a trovare la cugina, il nostro amico amante dei Caraibi potrebbe vedersi prelevato e trasportato in una prigione del Tennesse. O nella stessa prigione potrebbe finire il gestore dello shop online svizzero il proprietario friulano dell’azienda produttrice di macchine del caffè.

Non è inoltre chiaro se Meng sia stata arrestata in quanto figlia del fondatore di Huawei o in quanto CFO (Chief Financial Officier) dell’azienda. Si propende per questa seconda ipotesi. Il CFO è in genere nelle aziende multinazionali una figura molto rilevante nell’organigramma, ma non l’unica: stessa sorte potrebbe toccare al CEO, o al CTO, o al vicepresident (VP) di una nazione in cui l’azienda è presente e con essi a qualunque manager con potere di firma che abbia commerciato con un’azienda o un privato cittadino di una nazione sgradita agli USA.

I paradossi e le volute forzature che abbiamo appena elencato servono a rendere chiaro, qualora ce ne fosse bisogno, che un’applicazione estensiva e imparziale, quindi non politica, verso il trasgressore (ma sempre politica verso il paese sanzionato, in questo caso l’Iran) è di fatto impossibile, a meno di accettare che la giurisdizione penale statunitense si estenda ovunque nel globo secondo la discrezionalità tipica di uno strumento politico come quello delle sanzioni unilaterali, a cittadini di qualunque nazione che transitano anche momentaneamente in qualunque paese che abbia un accordo di collaborazione ed estradizione con gli USA.

Scenario irreale? Sì, effettivamente è irreale. Possono dormire sonni tranquilli i baristi da spiaggia francesi, i proprietari di shop online svizzeri, i magnati del caffè italiani, i negozianti del Turkmenistan e perfino i dirigenti di Service Provider europei con una controllata internazionale che ha aperto o intende aprire un point-of-presence a Teheran (sì, il riferimento non è casuale e potrebbe riguardare anche noti provider italiani ritenuti “strategici” dalle nostre istituzioni).

Tutti costoro non verranno arrestati, ma al contrario ogni manager di una qualsiasi azienda Hi-Tech cinese che nell’attuale mercato digitale globalizzato, de-localizzato e smaterializzato, dovesse trovarsi per ragioni di piacere o di lavoro in Canada o in altro paese altrettanto solerte verso le richieste USA, rischia una lunga condanna con addosso una tuta arancione. Ai manager cinesi, da oggi, conviene non mettere piede fuori dalla Cina o farlo molto cautamente. E’ difficile stabilire se questo configuri una potenziale violazione dei loro diritti umani, ma siamo d’altro canto certi che nessuno qui da noi si preoccuperà di sviscerare la questione.

Affermare che la superpotenza USA per ragioni geopolitiche fa un uso spregiudicato, discriminatorio e imperiale del proprio codice penale, del quale non perde occasione al contrario di vantare democraticità, equità e imparzialità, non è dunque un paradosso o una forzatura. E’ fredda cronaca.

One Reply to “Huawei: la guerra del 5G e la superpotenza a giurisdizione globale”

Lascia un commento

Your email address will not be published.

You may use these <abbr title="HyperText Markup Language">html</abbr> tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

*