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Infrastruttura 5G e Huawei, tra guerra e de-globalizzazione

Infrastruttura 5G e Huawei

di .manproject

Il 9 settembre alla Fiera del Levante il Ministro Di Maio ha assistito all’accensione, sostanzialmente una demo con la presentazione di alcune future applicazioni, della prima antenna a standard 5G prodotta dal colosso cinese Huawei, presente all’evento anche il management di TIM e Fastweb. Il 28 settembre all’interno di un’attività di lobbying altrimenti usuale, ma in questo caso di alto profilo e di una certa risonanza, presso la Nuova Aula dei Gruppi Parlamentari, lo stesso Ministro in compagnia di altri esponenti del Governo e del Sindaco Virginia Raggi hanno assistito allo Huawei 5G summit. Nel periodo tra i due eventi, verso la metà di settembre, il primo lotto di frequenze 5G (700MHz) è stato assegnato agli operatori, il 2 ottobre si è conclusa anche l’asta per gli altri lotti (3700Mhz e 26GHz).

Il posizionamento italiano di Huawei nel settore delle telecomunicazioni 5G ha tuttavia destato critiche e allerta da più parti. Analisti geopolitici come Germano Dottori, l’economista nonché primo ministro gialloverde in pectore durante le consultazioni successive al 4 marzo Giulio Sapelli e soprattutto l’intelligence statunitense, la quale ha messo in guardia il Copasir contro la penetrazione di Huawei nelle infrastrutture 5G, il quale Copasir ha conseguentemente convocato Di Maio per riferire nelle prossime settimane. Il punto sollevato è quello della sicurezza dei dati oggetto di presunte o possibili azioni di spionaggio da parte del Governo Cinese: a questo proposito è bene fare chiarezza su alcuni punti.

Seppure le tecnologie Huawei venissero adottate massivamente, i cinesi non avrebbero formalmente nessun accesso ai dati degli utenti italiani che sono, entro i termini di legge, gestibili e visibili direttamente soltanto dall’operatore di telecomunicazioni che acquista le frequenze ed eroga il servizio. Tra coloro che si sono aggiudicati le frequenze 5G (TIM, Fastweb, Vodafone, Wind3, Iliad) ci sono soltanto operatori “Italiani”, in realtà praticamente tutti controllati da pacchetti di maggioranza di azionisti esteri, ma non cinesi.

La scelta sull’infrastruttura tecnologica su cui erogare il servizio ricadrà sui vari operatori (tutti privati) che sceglieranno in base ai parametri di mercato: superiorità e maturità tecnologica, oltre che naturalmente il prezzo. Il mercato dei vendor per l’infrastruttura 5G (ma in generale per le grandi reti dei Service Provider, dal backbone IP alla rete fissa di aggregazione e di accesso, fino alle reti mobili 2G, 3G e 4G attualmente in servizio) è dominato da pochi player, per lo più giganti internazionali, e il motivo è semplice: si tratta di tecnologie complesse, che sostengono il core-business dei Service Provider e richiedono altissimi requisiti di efficienza e affidabilità (tecnologica e finanziaria). Le start-up vanno bene le App, ma nessun grande operatore si affiderebbe a compagnie piccole per questo genere di infrastrutture e raramente le compagnie piccole possono permettersi gli investimenti sufficienti a svilupparle. Questo è talmente vero che quasi sempre i Service Provider evitano di affidare la rete a un unico vendor, da un lato per evitare di legarsi mani e piedi ad un’unica soluzione (anche i grandi ogni tanto falliscono o escono di scena come avvenne per Northel e Motorola), dall’altro per mettere i vendor in competizione tra loro minacciando in caso di problemi o di prezzi troppo alti di concedere al competitor una fetta di investimenti maggiore.

Definito sommariamente il perimetro e le dinamiche principali di questo mercato chiediamoci che ruolo occupa Huawei all’interno di questo quadro. Huawei è uno dei vendor più grandi, in genere non possiede la tecnologia migliore in assoluto (anche se sul 5G promettono di sì), ma è quello che negli ultimi dieci anni ha fatto i passi avanti più importanti posizionandosi oggi a ridosso dei vendor “storici”. Dal punto di vista dei costi resta tra i meno costosi, minacciato sul piano della convenienza soltanto dall’altro colosso cinese in ascesa ZTE, considerata tutt’ora realmente low-cost dagli operatori e non del tutto affidabile. Se nel secondo decennio del secolo le tecnologie Huawei erano valutate o adottate dai Service Provider prevalentemente per calmierare i prezzi dei vendor occidentali, oggi la loro adozione è ancora trainata in parte dal prezzo, ma l’azienda cinese gioca sostanzialmente un ruolo tra pari con Ericsson, Nokia, Alu, Cisco, HP e gli altri grandi vendor occidentali di tecnologia e vanta un trend complessivamente in ascesa. Del resto l’utente italiano di telefonia avrà avuto modo di notare una dinamica simile, anche se più marcata, nel mercato consumer degli smartphone dove i risultati recenti di Huawei sono ancora più significativi.

In un mercato globale con pochi grandi operatori e pochissimi grandi vendor quali sarebbero le ricadute se, ad esempio, l’Italia bandisse la tecnologia Huawei (e naturalmente ZTE) dalle infrastrutture 5G? Innanzitutto l’industria di settore italiana non avrebbe nessun vantaggio per il semplice fatto che una tale industria non esiste. I Service Provider “italiani” taglierebbero fuori il vendor che ha probabilmente il miglior rapporto qualità/prezzo, lasciando campo aperto alle compagnie occidentali, prevalentemente statunitensi e nordeuropee, tagliando fuori il loro competitor più insidioso ed economicamente aggressivo.

Torniamo adesso alla sicurezza dei dati. Se abbiamo detto che legalmente e formalmente i vendor di tecnologia non hanno accesso ai dati degli utenti (inclusi clienti del mercato business e della PA) cosa teme l’intelligence americana dalla tecnologia cinese, tanto da avvertire il Copasir? Temono che il furto di dati avvenga in modo illegale attraverso l’utilizzo ad esempio di back-door sugli apparati di rete, cioè vie d’accesso ai dati nascoste, inserite maliziosamente dal vendor per truffare i propri clienti, carpendo i dati o lasciando vie d’accesso agli hacker governativi di Pechino. Quegli stessi clienti che hanno fatto le fortune di Huawei e che versano già alla società cinese decine quando non centinaia di milioni di euro ogni anno, cumulativamente miliardi sul medio periodo specie se Huawei dovesse accaparrarsi parte della rete 5G; quegli stessi clienti che attraverso accordi e partnership favoriscono la vendita degli smartphone Huawei in Italia. Potrebbe dal punto di vista della credibilità sul mercato globale Huawei sopportare uno scandalo del genere? No. Nessun Service Provider, tranne gli operatori cinesi, potrebbe più considerare Huawei un’opzione praticabile. Un grosso rischio per compiacere il Governo di Pechino.

Huawei si muove cioè su un mercato globale secondo le regole della concorrenza capitalistica internazionale, con un certo successo, l’unico motivo per bannare loro e non altri (in Occidente non ci siamo fatti certo mancare scandali sullo spionaggio informatico ai danni dei cittadini e dei governi stranieri, si potrebbe fare un lungo elenco) è la nazionalità afferente alla Repubblica Popolare Cinese. Un paese del WTO trattato come un nemico perché di fatto è un nemico, di una guerra economica e di intelligence che per ora non si è ancora spostata sul piano militare.

Valutiamo adesso alcuni aspetti pratici dell’eventuale ban anti-cinese. Ammesso e non concesso che Huawei decidesse di truffare i propri clienti per ragioni geopolitiche rischiando di autodistruggere i propri successi commerciali, sarebbe possibile per i Service Provider accorgersi dell’intrusione? Difficile dirlo, ma la sicurezza informatica gestita quasi sempre dagli altri vendor (prevalentemente statunitensi, europei o israeliani), lo spionaggio industriale dei competitor, quello dei servizi governativi locali o alleati, potrebbero prima o poi smascherare l’intrusione, specie se le violazioni dei dati si facessero massive e dunque vistose.

Negare a Huawei l’accesso alle infrastrutture 5G metterebbe al riparo i Service Provider italiani dal furto di dati ad opera del Governo Cinese (non conoscendo le strategie della Cina stiamo sempre facendo, è bene ricordarlo, un’ipotesi di scuola)? No. Per la semplice ragione che gli apparati Huawei sono già presenti nelle reti di quasi tutti i Service Provider, a cominciare dai più grandi: nelle reti mobili 2G/3G/4G, nelle reti d’accesso fisso, nelle reti d’aggregazione IP, nei Data-Center e qualche volta nei backbone IP.

L’unica soluzione alla presunta minaccia sarebbe dunque una bonifica della tecnologia Huawei da tutte le infrastrutture IT e di rete considerate strategiche dai Service Provider, un’operazione che richiederebbe tempi medio-lunghi e costi economici e logistici importanti che i Service Provider non sarebbero affatto contenti di dover sostenere, giusto per usare un eufemismo. Specie in una fase tutt’altro che espansiva che li vede perdere la battaglia strategica ed economica coi veri vincitori di questa epoca di Internet: Amazon, Facebook, Google e gli altri grandi OTT, nonché i veri detentori dei nostri dati sensibili. Colossi i quali nel mese di settembre sono tutti, guarda caso, comparsi su importanti articoli della stampa internazionale per problemi di sicurezza spesso imputabili, a loro dire, all’utilizzo di tecnologia cinese – si guardi a questo proposito i chip cinesi su tecnologia di video processing Elemental acquisita da Amazon, scandalo sbandierato da Bloomberg e smentito dai cinesi che chiedono di mostrare le prove di quanto affermato.
Uno scenario simile si era già presentato con il ban negli USA e in diversi paesi europei (ma anche su alcuni OTT) degli anti-virus russi prodotti da Kaspersky, episodio dello stesso segno ma su scala infinitamente minore, la distanza tra la tecnologia digitale russa e quella cinese per diffusione globale, penetrazione commerciale e ampiezza di gamma è incommensurabile.

Considerando che azioni simili contro Huawei e ZTE sono già state minacciate o attuate dagli stessi Stati Uniti in primis, dall’Australia, dall’India e vengono valutate dagli altri paesi europei, esistono due chiavi di interpretazione sovrapposte e coesistenti che afferiscono entrambe a un processo per ora abbozzato di de-globalizzazione.

La prima è la chiave commerciale, la tecnologia cinese dà molto fastidio in un settore dove statunitensi e nordeuropei la fanno da padroni, eliminare i competitor low-cost ma non sempre low-quality per ragioni di sicurezza è in fondo un’altra forma di dazio commerciale, in piena continuità con la direzione dell’amministrazione Trump.

La seconda chiave, che non esclude la prima ma la integra e forse la supera strategicamente è la guerra contemporanea, che si combatte come è noto su 5 piani: terra, mare, cielo, spazio e cyberspazio. Le infrastrutture di telecomunicazioni, letteralmente la base materiale del cyberspazio simbolo della globalizzazione, rientrano dunque ufficialmente sotto il regime delle infrastrutture militari, l’unico settore mai realmente globalizzato dove si è continuato ad acquistare soltanto da aziende nazionali o di paesi considerati alleati, mai (o quasi mai) da paesi nemici o potenzialmente tali.

La guerra contro la Cina è dunque già in atto, almeno per parte atlantica, e uno dei campi di battaglia è costituito dalle reti della internet pubblica cui accediamo ogni giorno in mille modi diversi. De-globalizzazione, divisione in blocchi economici e poli tecnologici separati da barriere commerciali e da ban governativi, con gli Stati Uniti che da par loro serrano i ranghi degli alleati.
Per comprendere come si porrà l’Italia in questo scontro e quale ruolo giocheranno i governi presenti e futuri, non resta che aspettare.


CONTINUA 

One Reply to “Infrastruttura 5G e Huawei, tra guerra e de-globalizzazione”

  1. Huawei: la guerra del 5G e la superpotenza a giurisdizione globale | Ottobre says: 14 Dicembre 2018 at 8:40

    […] nostro primo articolo avevamo cercato di fare chiarezza su come la guerra alle infrastrutture per le telecomunicazioni 5G […]

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