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Lineamenti di suprematismo occidentale dal gruppo Espresso

suprematismo occidentale

di Alberto Ferretti

Per chiunque fosse alla ricerca di un autentico concentrato di suprematismo occidentale, nella sua versione più moderna, raffinata e insidiosa, è possibile trovarlo in un editoriale di Federico Rampini – giornalista di punta del gruppo Espresso, corrispondente da New York e autore di molti libri – nell’inserto D di Repubblica del 19/08/2017.

Il gruppo Epresso è come noto una vera e propria centrale egemonica della classe dirigente nazionale. In quanto elaborazione destinata al grande pubblico di una delle sue voci più autorevoli, ci permettiamo dunque di prendere sul serio tale articolo: esso è sintomatico della capillarità e della diffusione di un complesso di superiorità che l’egemonia liberale e imperialista ha radicato in tutti gli strati sociali delle società occidentali.

I nostri valori

Veniamo alle parole di Rampini: il titolo del breve editoriale è: “Ma lei si sente ancora italiano?”; l’autore prende spunto da questa domanda rivoltagli a margine della presentazione di uno dei suoi libri, per il fatto di aver preso la cittadinanza statunitense. Rampini argomenta inizialmente con una scontata precisazione riguardo il suo orgoglio di “sentirsi italiano”. Ma attenzione, non si tratta di essere nazionalisti, vi sono infatti “culture nazionaliste e arroganti più della nostra come quella francese, tedesca”.

Rampini allarga poi il discorso: perché egli ha scelto di diventare cittadino USA? Risposta: innanzi tutto, gli Stati Uniti sono una “generosa nazione” che permette la doppia cittadinanza. Non certo come la Germania, ad esempio, ma soprattutto, ci tiene a informarci, come la Cina che, orrore orrore, addirittura “aborrisce il principio di fedeltà a 2 patrie”.

Così dall’ammirazione si passa rapidamente all’incanto e al lirismo: da una parte ci sono i barbari, dall’altra: “mi è piaciuto il modo in cui gli USA mi hanno accolto […] quest’America è una fabbrica di nuovi cittadini”. Ovviamente, il fatto che egli appartenga al ceto privilegiato operante in uno dei settori più importanti e internazionalizzati dell’economia imperialista pare non debba considerarsi causa della “buona” accoglienza ricevuta.

Anzi, rimosso il contenuto di classe del suo essere stato “ben accetto” nei circoli USA che contano, Rampini rilancia e passa alla devozione: non c’è cosa più bella dell’esame di ammissione che egli ha dovuto affrontare, consistente in un test di inglese e in un esame sulla Costituzione statunitense. Ecco le parole con le quali, per concludere l’articolo, da questa sua personalissima e parzialissima esperienza Rampini trae conclusioni di carattere generale e politico:

“Studiare quei testi è stato per me un’immersione nei valori dell’Occidente: c’è dentro il meglio di noi. E una civiltà della quale dobbiamo essere fieri. Stato laico, Stato di diritto, tutela delle minoranze, rifiuto delle discriminazioni in base al sesso, alla religione. Libertà d’opinione e di espressione. Chi vuol vivere fra noi, e con noi, deve condividere gli stessi principi. Non ve ne sono di migliori, altrove.” (corsivi nostri)

Rampini interpreta la riuscita del suo esame di ammissione alla cittadinanza USA come l’accesso al gotha della più generale civilità occidentale, in cui la specifica cultura italiana è diluita, civiltà che descrive come tollerante e razionale. Tuttavia, al di là della retorica, se dalla superficie si cerca di andare ai contenuti, fin troppo facile è scorgere in queste righe l’espressione di un pensiero sciovinista (“civiltà della quale dobbiamo essere fieri”), gerarchizzante (“non ci sono valori migliori altrove”) e intollerante (“Chi vuol vivere fra noi, e con noi, deve condividere gli stessi principi”). Scompare la storia e la lotta, nella visione di Rampini, dove c’è tutta l’astrattezza e l’idealismo che caratterizzano gli intellettuali liberali. La religione dei “valori occidentali” sembra pertanto essere eterna e affermatasi senza “colpe”. Innocente senza storia. Egli enuncia principi calati dall’empireo delle idee perfette e sovrumane, li coglie e li presenta al lettore nella loro immediatezza, come enunciati universali tratti dai testi sacri del liberalismo.

Eppure, che il predominio dell’Occidente si sia costruito nei fatti sullo sterminio, sull’oppressione, su disumane e persistenti clasuole di esclusione sociale e razziale, sulla gerarchizzazione interna a danno delle classi subalterne e esterna dei popoli delle colonie e delle periferie non importa. Che i testi idolatrati da Rampini siano l’opera di proprietari di schiavi neri i quali invocavano la libertà per la razza padrona non deve apparire nella narrazione. Che il sistema – il capitalismo-  alla base della diffusione di tale concezione del mondo – il liberalismo – si fondi tuttora sulla discriminazione effettiva degli uomini in base alla loro posizione sociale al di là del riconoscimento nominale e formale di eguaglianza (conseguita dalle lotte dei subalterni e non graziosamente concessa dai dominanti), sull’appropriazione privata della ricchezza sociale, sul principio della democrazia dei signori è indifferente. Che tragga e non possa che trarre sostentamento dall’imperialismo, dalle guerra permanenti e genocide nei confronti dei popoli delle periferie, che acutizzi nel frattempo in maniera esponenziale le diseguaglianze in Occidente pare irrilevante.

Ai presunti miracoli che Rampini attribuisce con tanta leggerezza e superficialità all’ideologia borghese, già Togliatti nella sua celebre polemica con Bobbio aveva risposto così:

“Quando mai e in quale misura sono stati applicati ai popoli coloniali quei principi liberali su cui si disse fondato lo Stato inglese dell’Ottocento, modello, credo, di regime liberale perfetto per coloro che ragionano come Bobbio?” “La dottrina liberale […] è fondata su una barbara discriminazione tra le creature umane”.*

Proprio così. Ma l’Occidente di Rampini è il luogo esclusivo della civilizzazione, dei principi più alti, per definizione e contro ogni prova storica. Il tempo storico è infatti annullato nell’eterno presente della rappresentazione della civiltà superiore, che non potendo più usare il linguaggio del razzismo scientifico in voga fino a pochi decenni orsono – visto il successo di rivoluzioni e lotte di liberazione nazionale dei popoli coloniali, registrata la sconfitta del fascismo storico, constatata l’emancipazione umana guidata dal movimento comunista e acquisiti i suoi lasciti perenni – usa il linguaggio moderno e accattivante della gerarchizzazione culturale e la retorica dei valori, per aizzare scontri di civilità.

In Rampini, siamo di fronte all’espressione semplice, per il grande pubblico, di un “liberalismo aggressivo, che è un dogma e già un’ideologia di guerra” (Merlau-Ponty): il suprematismo occidentale di tradizione coloniale. Non a caso, questo dogma si ossifica e si rinforza in opposizione, che lo si voglia o meno, al grande altro, al nemico, al barbaro: la Cina, che Rampini stigmatizza in maniera gratuita. Non a caso si tratta del Paese che più di tutti sta rimettendo in questione la posizione di supremazia globale assunta dalla borghesia dei centri imperialisti e dai poteri nazionali ad essa corrispondenti -cristalizzati nel concetto di Occidente – conquistata con la rivoluzione industriale.

La Repubblica popolare colma ormai a passi da gigante il divario con le potenze imperialiste, ha spezzato il monopolio economico-tecnologico detenuto dall’Occidente e lo supera in alcuni campi; facendolo nella prospettiva strategica di non riprodurre in eterno le tare del capitalismo storico: quali la polarizzazione sociale estrema e disumanizzante, la miseria costante, la sopraffazione imperialista, la divisione del mondo in nazioni dominanti e nazioni dominate, in una prospettiva socialista. Prendendo impulso per questa arrogante visione del mondo dovuta alla secolare supremazia materiale dell’Occidente capitalistico, gli intellettuali liberali sembrano però non voler cogliere, come gli ultimi giapponesi in una guerra di egemonia permanente, che gli equilbiri del mondo stanno cambiando, grazie all’emergenza dei popoli del mondo ex coloniale in seguito alla loro liberazione e allo sviluppo economico. 

Tuttavia, che lo vogliano o meno, la “rivoluzione anticoloniale” mondiale (Losurdo), col suo successo, in Asia, guidata dalla Cina, sconvolge l’agenda imperialista. E forse, la recrudescenza della retorica suprematista e della sua correlata aggressività bellica sta proprio nel rifiuto implicito, e nell’impossibiltà oggettiva, di accettare e riconoscere tale emancipazione.

Influenza del suprematismo occidentale sui proletari dei centri

Il punto di vista della grande stampa è sostanzialmente lo stesso dei circoli accademici e culturali dei centri imperialisti, di ogni orientamento, da quelli liberali, ai fascisti (che ancora riciclano il vecchio paradigma razzista, gettato a mare dalla borghesia in quanto inutilizzabile per creare consenso intorno alla sua agenda suprematista e bellica) a quelli di sinistra, anche una parte di quella che si definisce marxista.

L’apparato ideologico appaga il senso di potere, di rango, di casta, del centro sulle periferie, espressa oggi in termini di valori e non più attraverso la teoria razziale. Il paradigma imperialista si serve di una retorica progressista, abusa della formula dei “diritti umani”, la quale, sequestrata dai liberali, contiene null’altro che eurocentrismo e presunzione nei confronti delle lotte reali dei popoli che si sono liberati dall’oppressione sia nella sua originale veste coloniale sia nella forma neocoloniale di dipendenza economica e aggressione ricolonizzatrice in corso.

Essi oggi lottano per l’indipendenza economica e l’integrità nazionale, al fine di consolidare la propria emancipazione conseguita con le armi nel secolo scorso; si battono per il diritto a essere ammessi al rango di eguali nella “comunità internazionale”, intendono cambiare il senso di essa: da club esclusivo di nazioni egemoni sfruttatrici a luogo di cooperazione internazionale e di democrazia reale. Media, università e cultura trascinano l’insieme delle classi subalterne lavoratrici dei centri imperialisti sulla strada dell’insensibilità alle aggressioni in nome del diritto-umanismo, dell’affermazione dei “nostri valori”. Lo abbiamo visto in Afganistan, Iraq, Libia, in Siria, ovunque l’apparato bellico imperiale ha causato genocidi e devastazione, morte e miseria, bloccando lo sviluppo di intere regioni ricacciandole nell’inferno e nel Medioevo, calpestando in modo barbaro i diritti umani vitali di quei popoli.

Argomentando però in modo astratto, utilizzando paramentri di giudizio parziali e falsamente universali, omettendo storia, contesto e base sociale, ogni giorno l’apparato ideologico borghese sedimenta falsa coscienza e approccio metafisico-fideistico sulla bontà della società esistente. E le classi subalterne, preda di tale propaganda, partecipano al clima culturale suprematista, nonostante il declino oggettivo del modello economico-sociale del capitalismo imperialista. Far prendere coscienza dello sviluppo dei paesi rivoluzionari liberatisi dal giogo coloniale è dunque una premessa necessaria a qualsiasi tentativo di emancipazione delle classi lavoratrici occidentali. O si opera infatti la giunzione tra lotte sociali nei centri e le lotte nazionali dei popoli periferici, o non ci sarà emancipazione in Occidente. Essi oggettivamente fronteggiano lo stesso nemico principale: la borghesia imperialista.

Ricordiamo in tal senso il motto del Congresso dei popoli dell’Oriente tenutosi dopo il II Congresso dell’internazionale comunista del 1920, a Baku: “Proletari di tutti i paesi, e popoli oppressi del mondo intero, unitevi!“. Vale oggi più che mai. I popoli oppressi hanno fatto la rivoluzione contro le nostre classi dominanti e i loro luogotenenti locali, sta a noi metterci alla loro scuola e prenderne esempio.


* Le citazioni di Merlau Ponty e Togliatti sono tratte dal libro di Domenico Losurdo, Il Marxismo Occidentale, Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017

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