Parte prima. Una caratteristica saliente della nostra epoca è senza dubbio la completa inattendibilità dell’informazione, in particolare nel campo della politica estera e della guerra, dell’economia e del lavoro, del ruolo dello Stato. Ovvero, laddove si collocano gli interessi prevalenti della borghesia imperialista, quella classe sociale che domina e dirige i paesi capitalisti più avanzati, riuniti nel blocco imperialista collettivamente operante sotto la guida egemonica della superpotenza USA. Il ribaltamento della realtà è una costante, facilmente intuibile appena si scavi la superficie dell’informazione di massa. Tuttavia, la pervasività e l’ossessività della propaganda crea una coltre e una nebbia difficile da diradare.
Perché? Occorre innanzi tutto notare che ci troviamo in una situazione storica inedita dovuta dell’estrema concentrazione dei gruppi mediatici. Poche centrali si ritrovano a erogare contenuti per l’intero spettro dell’informazione e della produzione culturale su scala globale. Pochi azionisti detengono e controllano l’insieme della proprietà dei canali d’informazione ma, ancor più importante, è la centralizzazione, il modello economico verticistico di una filiera che procede dalle agenzie di stampa internazionali, ai network di informazione permanente 24/24 fino ad arrivare per rivoli ai canali nazionali tradizionali, che induce un controllo, una pervasività e una capacità di programmazione inaudita finora nella storia dell’umanità.
Ma c’è di più. Il mondo dell’informazione è interconnesso con quello della cultura, esso è spalleggiato e supportato da un possente apparato accademico la cui funzione è di fornire un sostrato « scientifico » teso a dare legittimità certificando col bollino della « oggettività scientifica » – concetto esteso indebitamente ad ambiti come la finanza, le relazioni internazionali, il lavoro, le scienze politiche, attività di per sé dipendenti più dalla composizione delle forze sociali che da leggi fondamentali della materia – la proiezione ideologica degli interessi concreti e dei desideri delle classi dominanti.
Un apparato diretto da uno stato maggiore, propenso a recultare all’interno di un bacino ben preciso. I giornalisti (e gli intellettuali) sono oggi – nelle concrete condizioni storiche della restaurazione liberista e della rimozione economico-sociale e teorica delle conquiste del movimento operaio marxista leninista – un categoria professionale espressione di uno strato sociale che si appoggia a gruppi dominanti completamente staccati dalla realtà. O meglio, che vivono in una frazione della realtà altra rispetto a quella della stragrande maggioranza della popolazione.
Il pluralismo – tanto sbandierato dal nostro ceto politico come traguardo di libertà che ci distinguerebbe dal resto del mondo – non è che il riflesso, in tale contesto, dei molteplici scontri egemonici tra questi gruppi sociali appartenenti alla borghesia imperialista. Per questa ragione, la prima restrizione che il discorso pubblico e ufficiale impone, è che non può svilupparsi « dibattito » se non all’interno del ristretto ambito dei problemi e dei punti di vista inerenti agli elementi che compongono la concezione del mondo di questi gruppi sociali a vario titolo dirigenti e dominanti, diremmo fondamentali.
Questa configurazione elude di fatto la realtà delle classi subalterne, per larga parte misconosciuta e inconoscibile da parte di questi funzionari intellettuali radicati socialmente in una sfera di attività superiori. La particolare interpretazione derivante da una conoscenza pratica della realtà che è loro propria (contenente in sé solo una parte della realtà oggettiva) è assunta come unica, assolutizzata e al contempo isolata dal processo e dal movimento sociale e storico. Essa non ammette elementi esterni, pur connessi e che in relazione reciproca formano la realtà di un dato momento storico; in conseguenza l’universalismo tanto sbandierato del pensiero liberale borghese esprime in realtà una ristrettissima, schematica e inconsapevole parzialità di classe.
La dualità e l’antagonismo tra dominati e dominanti non si ricompone pertanto nella visione falsamente unitaria proposta dalla cultura e nell’ideologia ufficiale dei ceti superiori. I dominanti coltivano un’unilateralità, incentivata dallo strapotere economico-politico senza contrappesi esercitato dai monopoli da loro detenuti in ogni settore economico, che non conosce altro, se non appropriandosene, trattandolo attraverso un processo di inclusione nella visione di comodo elaborata secondo i parametri già prefissati del paradigma dominante.
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I dibattiti e i giudizi mediatici sono dunque sempre più lontani dalla realtà delle classi lavoratrici e subalterne, non ne riflettono i sentimenti e le aspirazioni, non trattano dei loro problemi: lo scarto tra rappresentazione ideologico-culturale e realtà materiale sembra sempre più incolmabile, così come l’incomprensione della vita delle masse. Vi sono mille esempi di malsana propaganda classista e mistificatrice dei fenomeni politici e sociali e di come la protesta prenda forme contraddittorie, se non c’è una forza, o un insieme di forze, nate dalla base sociale di riferimento in grado di far superare lo stadio immediato del malessere. Quel che conta qui è il filo comune che lega certi fenomeni politici: espropriate dei mezzi per produrre una propria base economica e una connessa autonoma concezione del mondo, incatenate da rapporti sociali che le pongono in condizione subordinata nel mondo della produzione, la vita collettiva delle classi lavoratrici è ricacciata al livello di insignificanza, i loro problemi evasi, o snaturati e depotenziati affinché si integrino nei discorso ufficiale.
In conseguenza, il loro riconoscimento non è all’ordine del giorno nell’agenda mediatica se non sub specie della visione dominante. E quando non entra nelle loro categorie o nei loro desiderata, esse sono vilipese. Non è esagerato dunque dire che le classi subalterne sono colonizzate nella propria patria da chi detiene il monopolio economico e della narrazione ideologica della realtà nazionale e dai suoi rapporti internazionali. Ciò è particolarmente evidente quando le classi dirigenti arrivano a gestire anche il dissenso, il quale non di rado si esprime secondo parole d’ordine del tutto funzionali al mantenimento dello status quo al quale le masse intendono e credono in buona fede di opporsi.
Tale tendenza colonizzatrice è ancor più spinta quando non esiste, o è stato liquidato, un dispositivo sociale di selezione degli intellettuali che elaborino le idee nate dalla pratica collettiva delle classi lavoratrici e delle masse popolari, in grado di proporre una concezione compiuta del mondo che abbia alla base gli interessi concreti della base sociale, che si ponga come alternativa concreta, come argine al dilagare dell’affermazioni incondizionata degli interessi materiali e ideali dei gruppi dominanti.
Quando manca insomma lo strumento (o l’insieme di strumenti) per elaborare, sistematizzare, svolgere, affermare le istanze popolari in un determinato periodo storico e altresì accogliere quelle delle altre classi in un insieme superiore e più completo rispetto a quello attuale. Certi aspetti parziali, validi, del punto di vista delle classi superiori vanno infatti integrati in un modello ideologico superiore che solo nasce dalla pratica e dall’elaborazione intellettuale delle classi lavoratrici, che rappresentano la più larga base materiale, la più estesa forze produttiva della società moderna.
[…] Parte seconda. Compito politico arduo ma fondamentale, che i comunisti sono chiamati a svolgere anche prima della presa del potere: inserirsi nella sfera ideologica del nemico di classe e cercare di ampliare lo spettro di influenza sociale del punto di vista dei lavoratori, i quali sono la maggioranza, ma il cui discorso organico è inaudibile e ultraminoritario. All’inizio sarà « solo » contropropaganda (cercare di contrastare il flusso di disinformazione cosciente costruito dagli apparati mediatici della borghesia), così come al livello economico sarà « solo » agitazione sindacale (cercare di contrastare il flusso di decreti anti operai e attacchi alle conquiste economico sociali), per poi svilupparsi in qualcosa di più coerente e unitario, che abbracci sempre più ampi aspetti del reale e dell’immateriale, attraverso la connessione tra la pratica e la teoria, al contempo sul piano economico, sociale, politico e del pensiero. […]