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Il socialismo tradito: le cause della caduta dell’URSS*

cause della caduta dell'URSS

Il dibattito sulle cause della caduta dell’URSS è ampio e variegato. La corretta comprensione di un evento di tale portata aiuta senz’altro lo sviluppo del movimento operaio odierno, lasciato orfano da un riferimento ideale e materiale così importante quale fu il primo Stato operaio della storia.

Lasciando da parte il liquidazionismo di chi vede nell’URSS “l’impero del male” e “un regime totalitario” (parole senza senso, riflesso della criminalizzazione borghese dell’esperienza sovietica, che gran parte della sinistra riformista e radicale propaga a piene mani), e le analisi senza costrutto degli economisti borghesi che si limitano a ripetere la tautologia del “comunismo crollato perché l’economia comunista non può funzionare” (spacciando così i loro pregiudizi di classe per scienza) – è opportuno avanzare critiche precise sugli eventi che hanno contribuito a sconvolgere il mondo.

Concentriamoci sui problemi economici del socialismo sovietico negli anni ‘80. Spesso di sente dire, senza prove e quasi come luogo comune, che l’econonomia sovietica era al collasso; ma ciò è falso, e sono pronti ad ammetterlo anche i più attenti studiosi anti-comunisti. Il PIL cresceva a livelli ben superiori delle economie occidentali, e ben più di quanto cresca oggi in Europa e USA; i bisogni di base – alimentari, locativi, energetici – erano pienamente soddisfatti; la disoccupazione scomparsa; i servizi pubblici gratuiti e di buon livello per tutti; settori industriali e tecnologici spesso più avanzati di quelli capitalistici; una produzione culturale e un’instruzione infinitamente superiore in qualità e diffusione popolare rispetto ai Paesi capitalistici. Globalmente l’economia dell’URSSS – e delle Repubbliche socialiste dell’Est Europa, spesso in certi settori più avanzate della stessa URSS, si pensi alla Germania Est e alla Cecoslovacchia – era in buona salute, non per questo era perfetta né esente da problemi anche importanti.

Eppure vi fu una necessità di riforme che condusse alla caduta del Sistema. Che cosa successe? Un aspetto di critica più pertinente rispetto a quanto accade si incontra piuttosto quando si dibatte sul rifiuto dell’URSS di innovare introducendo meccanismi di mercato (o continuare la NEP, o seguire il modello cinese), o sull’impossibilità stessa di riformare il modello socialista integrale. In proposito, vanno precisati alcuni aspetti che speriamo possano contribuire al dibattito, questi aspetti sono di natura economica e ci limiteremo qui a tracciarne le grandi linee, rimandando per i dettagli e le statistiche alla bibliografia in nota.                                              

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Nel ‘56 con Krusciov si allentò non solo e non tanto il rigore ideologico del partito, ma soprattutto il controllo competente sull’economia socialista, nella misura in cui il nuovo corso prevedeva una svolta “di destra” intesa come meno centralizzazione pianificatrice e più liberalismo economico. Un buon esempio furono le calamitose riforme dell’agricoltura, con lo smantellamento delle grandi centrali dei trattori in favore di un’accresciuta autonomia dei kolchoz (cooperative agricole), che causò una perdita sostanziale di produttività nell’agricoltura e un aumento dei prezzi tale da generare il malcontento nella popolazione. In pratica l’applicazione di tale linea fu a dir poco catastrofica.

Il minimo che si possa dire è che tale tendenza – di per sé non criticabile a priori (lasciando da parte qui il ruolo nefasto dell’opposizione di destra che prese il potere con Krusciov nella falsificazione della storia sovietica nel periodo staliniano) – non prese la forma di un’ordinata transizione di una parte dell’economia verso meccanismi di mercato inclusi nei piani quinquennali, con investimenti privati a corollario dei macro investimenti pubblici che in ogni caso avrebbero determinato il senso dello sviluppo.

Nulla di serio venne messo in cantiere per riformare in senso di aperture a processi mercantilistici l’economia, se questo era l’autentico desiderio della tendenze del PCUS più concilianti con la piccola borghesia e l’economia parzialmente capitalistica rappresentata all’epoca staliniana dai contadini medio-ricchi di cui Krusciov e la classe dirigente a lui vicina erano i referenti politici.

Negli interstizi non performanti dell’economia pianificata che il nuovo corso riformista non si occupava di perfezionare – e che quindi iniziava a manifestare crepe e disfunzionamenti ove l’attenzione era meno ferrea – sacche di economia informale o sommersa ricadevano vieppiù in mano a privati, non riconosciuti come tali, ma di fatto in possesso di mezzi di scambio e produzione. Questi nascenti rapporti privati di scambio erano di fatto invisibili alle statistiche ufficiali. Prese forma dunque, sulla base di una linea confusa e volontarista, un graduale disimpegno statale che si trasformava in accaparramento da parte degli amministratori e personale a loro legato (e di cittadini con in mano piu disponibilità di altri) di una parte dell’economia, che pian piano si sviluppava sulle inevitabili mancanze e difetti dell’economia socialista di stampo collettivista innestata dai primi piani quinquennali e incentrata sull’industria pesante.

Questa seconda economia ombra – di contrabbando, o sommersa – che si sviluppava all’interno dell’economia socialista, se da una parte approfittava dei difetti operativi della pianificazione, dall’altra contribuiva a disgregare le forze produttive, in un rapporto dialettico. Alimentava cioè dei canali paralleli illegali, base materiale di una corruzione nei livelli del partito e del governo, e in una ventina d’anni – verso la fine degli anni ’70 appunto – aveva giocoforza creato, come ogni settore economico in ascesa fa, una base sociale, per quanto esigua numericamente, abbastanza influente, perché legata a una parte (diremmo la parte malata) della burocrazia statale e di governo.

Per di più, il Gosplan (l’ente statale preposto alla redazione dei piani quinquennali) si ritrovava nella surreale situazione di non poter integrare – poiché non li conosceva, o poiché faceva comodo ignorarne l’esistenza in mancanza di chiare direttive politiche – i dati provenienti da questi settori più o meno informali, e non controllando realmente l’attività di certe cooperative che formalmente si iscrivevano nel sistema pianificato ma che in realtà procedevano a lenti spostamenti delle merci da un settore legale a quello paralegale del mercato nero, basava una parte degli obiettivi macroeconomici su dati incompleti o errati.

Come risultato potevano esservi previsioni completamente irrealistiche su certi obiettivi di produzione, che i responsabili degli stabilimenti si prodigavano però a “raggiungere” falsificando a loro volta la contabilità di risultato, con un potenziale circolo vizioso permanente che si radicava nell’amministrazione dell’economia sovietica. L’allocazione delle risorse era allora per forza inesatta e sviata sulla base di una fotografia della situazione economica che non rispondeva al 100% alla reale composizione dell’economia. In mancanza di rettifiche sostanziali, tale situazione non poteva che peggiorare e i problemi inasprirsi di anno in anno.

In pratica, questa incontrollata liberalizzazione di fatto di alcuni strati economici – ripetiamo di un’esigua ma crescente parte dell’economia che si estendeva come un bubbone perché fuori dal controllo del partito e dello Stato, il quale colpevolmente rifiutava di prestarvi l’attenzione dovuta (ossia legalizzarla per controllarne i flussi o vietarla) – creava le condizioni oggettive dell’emergenza di interessi proto-capitalistici in certe fasce sociali che tiravano non solo sostentamento, ma arricchimento (cosa inedita nel sistema sovietico) da un’attività economica assimilabile al capitalismo, ma costretta e ristretta dall’intelaiatura collettivista e socialista della quasi totalità dell’economia sovietica.

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Ciò detto, agli albori degli anni ‘80 questa seconda economia era diventata abbastanza invasiva e prospera. In parte a causa dell’imperizia pianificatrice dei sovietici, in parte per colpa del corso kruscioviano “di destra”, in parte a causa della necessità di concentrare tutta l’attenzione sull’industria pesante (che al contrario era per quantità e qualità uguale se non superiore a quella capitalista, il che dimostra che in sé la proprietà sociale e la logica di piano integrale producono risultati sbalorditivi, se la pianificazione è eseguite con attenzione e sulla base di informazioni corrette), questa seconda economia da un lato amplificava alcuni problemi come le penurie di certi prodotti, dall’altro ne traeva profitto grazie al mercato nero.

La dirigenza del PCUS si rese conto di questa serie di problemi verso gli ultimi anni della Presidenza Breznev, e dopo la sua morte il nuovo Segretario generale Yuri Andropov iniziò a mettere in pratica le misure necessarie per sradicare queste tendenze nocive per il socialismo. Le priorità identificate all’epoca erano chiare e inequivocabili: combattere il lassismo e assenteismo del ceto impiegatizio urbano, combattere la corruzione (vittima delle retate anticorruzione del KGB in epoca Andropov vi fu lo stesso nipote di Breznev), modernizzazione dell’economia prendendo in conto meccanismi controllati e ragioni di mercato se necessario per migliorare i settori dell’industria leggera e di consumo, rafforzamento e perfezionamento della pianificazione statale.

Ebbene, questa impresa riformatrice, scomparso prematuramente Andropov, dopo l’inutile parentesi Chenrnenko, passò in mano a Gorbatchev. Egli sin dall’inizio suscitò un’ondata di entusiasmo tra i sovietici che attendevano un processo riformista nel loro Paese, e Gorbatchev inizialmente non tradì le aspettative della popolazione ripercorrendo e volendo approfondire, almeno in teoria, il lascito dell’opera di Andropov, cercando di mettere in pratica tale linea, diremmo, modernizzatrice.

Tuttavia quel che accadde fu che il processo fu rapidamente preso in mano ed egeminozzato dai rappresentanti di questa seconda economia capitalista abituatisi ad arricchirsi nell’ombra sui malfunzionamento del socialismo, rappresentanti che spesso occupavano posti importanti all’interno del partito e dello Stato, invaghiti dai lussi altolocati del modello occidentale (che frequentavano tramite ambasciate e circoli politico-culturali), e che videro nell’emergenza di una corrente riformista un’opportunità storica per la realizzazione di interessi comuni a uno strato sociale minoritario ma in ascesa, fino a quel momento parzialmente frustrati: quella di smantellare l’economia pianificata che impediva il conseguimento dell’arricchimento privato, che avevano pregustato nelle loro attività semi-legali.

Il processo riformatore che si imponeva oggettivamente fu sequestrato dai liberisti in seno al PCUS (come poi il PCUS possa aver tollerato al suo interno tale degenerazione è argomento che rimandiamo a ulteriori analisi), come occasione di prendere il potere. In questo senso si può dire che certi quadri del partito, influenzarono le scelte della dirigenza Gorbatchev, effettuando una controrivoluzione dall’alto, tanto più facile quanto l’applicazione dell’era Gorbatchev di meccanismi riformisti di mercato si fece in maniera caotica e al di fuori di ogni pianificazione razionale.

Fu attuata una terapia di shock – come ad esempio la decisione del governo di ridurre del 50%, da un giorno all’altro, gli acquisti delle merci prodotte delle aziende di Stato, per lasciare il “libero mercato” allocare le merci secondo il meccanismo, sconosciuto all’economia sovietica, della “domanda/offerta” – il che in un’economia pianificata può voler dire solo introdurre il caos per decreto, se prima non si è costruita un’infrastruttura e una serie di meccanismi in grado di assorbire la merce e i capitali. Misure come queste possono avere senso solo se spiegate così: furono imposte sulla spinta degli estremisti liberisti, nell’illusione che il “mercato” fosse la risposta a tutti i problemi, e messe in pratica solo per far in modo che le mafie sviluppatesi sotto l’ombrello della seconda economia potessero mettere mano sulla merce sottratta al monopolio di Stato, garantendo l’arricchimento smisurato degli approfittatori. Lo sviluppo di tali forze produttive generate da questa economia capitalistica non riconosciuta entravano infine e improvvisamente in conflitto diretto coi rapporti di produzione prevalentemente socialisti, in maniera del tutto antagonistica e senza mediazione del partito e degli organi di governo privi di obiettivi chiari.

E infatti andò proprio così. Il conflitto prese la forma di elementi degenerati del Partito i quali, sotto influenza della corruzione, delle reti informali paramafiose di arricchimento, dell’egemonia culturale ultraliberista in provenienza occidentale (di moda nei nuovi think thank economici liberali di Mosca), fecero deragliare le “riforme” verso il mai previsto smantellamento del socialismo. Altrimenti detto, gli elementi protocapitalistici che per decenni erano stati occultati e gestati colpevolmente emersero all’improvviso e presero una forma controrivoluzionaria e anti-partito sull’onda di riforme mal concepite, avventate e mal gestite, applicate sotto ricatto imperialistico, che distrussero in 5 anni la prospera economia socialista costruita in 70 anni di immani fatiche. Se l’obiettivo era migliorare le performance economiche dell’industria leggera, e riorientare quanto possibile alcuni settori elevando gli standard di qualità, la via intrapresa sorpassava questo intento economicista per prendere chiari connotati politici: la restaurazione pura e semplice del capitalismo.

La mancanza di beni di prima necessità infatti, è opportuno ricordarlo a chi ancor oggi blatera di “comunismo che aveva ridotto i cittadini alla fame”, data di questo periodo – 1985-1991- ossia del periodo in cui il socialismo era messo sotto prova di “riforme” che in realtà avevano preso la forma di capitalismo nascente e stavano disarticolando inconscientemente l’intera catena produttiva sovietica. Non era il socialismo a non funzionare – nel senso che i problemi economici esistevano, ma avevano proporzioni relativamente controllabili e per altro erano indentificati dalla parte più cosciente del partito che cercava di porvi rimedio – ma piuttosto la sua riforma in senso liberale sfuggiva di mano a tutti, tranne ai capitalisti in erba che covavano sotto le ceneri dei disfunzionamenti di una parte dell’economia socialista e che trovarono più semplice convincere le istanze  decisionali di governo a distruggere tutto, piuttosto che operare un ben più complesso, dettagliato, graduale processo di aggiustamento degli aspetti problematici.

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Paradossalmente, in maniera controintuitiva rispetto alla vulgata odierna, non fu il troppo controllo dell’economia che affossò l’URSS, bensì al contrario la mancanza di controllo di attività “illegali” che prosperavano sui bassifondi della vita economica sovietica, l’incapacità di dirigerli negli interessi superiori dello sviluppo delle repubbliche socialiste: attività che arrivarono necessariamente ad attaccare i gangli vitali del sistema al fine di prenderne il sopravvento. Quando vennero alla luce fu troppo tardi per fermare questi “spiriti animali”. Se infatti in un sistema capitalista il laissez-faire accordato agli agenti economici privati è salutare, e l’economia sommersa è consustanziale al capitalismo e alimenta alcuni canali di profitto e arricchimento privato, in un sistema socialista, se non controllato, può condurre alla morte e alla paralisi del sistema, il quale è orientato verso altri obiettivi, ossia la ripartizione sociale delle ricchezze sulla base dell’eguaglianza e della giustizia sociale contro l’accumulazione e l’accaparramento privato. E controllo, in tal senso, non vuol dire tanto proprietà, quanto capacità egemonica di indirizzo da parte del potere politico del capitale o dell’attività privata.

Problemi economici colpevolmente messi sotto il tappeto per decenni da una dirigenza perlomeno pigra, sotto attacco imperialista, ossificata per certi versi; riforme in senso capitalistico fatte sotto l’egemonia della classe simil-borghese che si era costituita dall’epoca krusciviana non poterono che che condurre a quanto accadde: la catastrofe dello smantellamento dell’URSS, e il saccheggio delle risorse dei Paesi da parte di una classe di oligarchi, cioè mafiosi fuoriusciti dai circuiti della seconda economia legati ad alcuni quadri del partito che approfittarono dell’opportunità per arricchirsi con l’appoggio dei circoli capitalistici occidentali e del FMI.

Fu controrivoluzione, interna, condotta dalle élite in stretta relazione con l’Occidente capitalista, imposta dall’alto sulle masse popolari contrarie al nuovo corso e sulla parte sana del Partito, dell’esercito e dello Stato che non riuscirono a fermare la controrivoluzione (il perché non vi si riuscì merita un approfondimento più lungo che esula da questo sintetico resoconto sulle ragioni economiche della caduta e dell’URSS e che ci ripromettiamo di sviluppare in seguito). I riformatori , in estrema sintesi, fragilizzarono l’URSS per poi dire che l’unica soluzione era di privatizzare tutto, una tattica che conosciamo e sperimentiamo ancor oggi in Europa.

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Con uno sguardo al presente, rispetto alla questione delle riforme in seno al socialismo, possiamo dire che l’esperienza cinese – vero e proprio laboratorio di innovazioni pratiche e riforme all’interno del Sistema socialista – prova che l’inclusione cosciente di elementi capitalistici nel più vasto quadro dell’economia pianificata non solo può contribuire positivamente a migliorare i meccanismi economici della parte pubblica dell’economia, ma la preponderanza della parte pubblica aiuta quella privata a non estremizzarsi verso la predazione finanziaria ed essere più performante a sua volta, in un rapporto dialettico positivo se controllato da un Partito saldo nei principi e competente tecnocraticamente.

Il capitale, in questo contesto, tende a seguire fiduciosamente gli investimenti di Stato e si radica in attività industriali produttive, invece di perdersi nei rivoli del commercio illegale e della speculazione. Per questo il PCC e la nuova dirigenza unita intorno al Segretario Xi Jinping, ha identificato nella corruzione il potenziale elemento disgregatore del sistema. Questa corruzione si era sviluppata negli anni dello sviluppo “disordinato e anarchico”, il laissez-faire rappresentato dal periodo di Hu Jintao al governo. Il PCC ha studiato e fatto tesoro degli errori dell’URSS, appena descritti, commessi al tornante storico dell’adattamento del socialismo alle mutate condizioni storiche degli anni ’80 e alla sfida rappresentata dal capitalismo neo-liberale trionfante all’epoca.

Il socialismo cinese attuale accoglie queste tendenze economiche, ma a differenza dell’URSS, gli elementi capitalistici emersi gradualmente e ufficializzati non possono che adeguarsi all’egemonia del proletariato che detiene le redini del potere politico, e prendere la forma non già di elemento disgregatore e distruttivo, ma di elemento gregario e leale. Non certo perché i capitalisti cinesi siano buoni, ma perché non hanno scelta: arricchirsi sì, ma con le regole scritte e all’interno dei limiti concessi dal Partito, non contro il Partito e lo Stato.

Come abbiamo avuto modo di dire (vedere i tre link in nota) questa è la sfida propria alla Cina contemporanea in questa fase storica, ed è su questo aspetto – ossia quello delle riforme all’interno del quadro socialista, siano esse nel senso del mercato o nel senso di una socializzazione più spinta – che senza dubbio l’URSS e la sua dirigenza hanno fallito. Tuttavia la loro opera ha fornito preziosi elementi di riflessione per la pratica politica degli Stati socialisti odierni – che possono contare su quell’esperienza, purtroppo finita male (anche perché l’URSS fu il primo Stato operaio a ritrovarsi ad affrontare problemi economici di tale portata, per i quali non aveva alcun appiglio storico a cui fare riferimento nel risolverli) – nell’orientarsi e sopravvivere nel tornante storico attuale in cui il capitalismo è ancora il sistema di produzione prevalente su scala globale.



* Roger Keeran, Thomas Kenny, Le Socialisme trahi. Les causes de la chute de l’Union soviétique (The Socialism Betrayed. Behind the Collapse of the Soviet Union), Paris, Delga, 2012

Henri Alleg, Le grand bond en arrière, Paris, Delga, 2011

Grover Furr, Krusciov mentì, La città del sole, 2016

Michael Parenti, Black Shirts and Reds, Rational Fascism and the Overthrow of Communism, 1997

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Cina popolare/Unione europea: l’insostenibile paragone

Lezioni cinesi sulla crisi finanziaria

7 Replies to “Il socialismo tradito: le cause della caduta dell’URSS*”

  1. Il socialismo tradito: le cause della caduta dell’URSS* – noicomunisti says: 2 Novembre 2016 at 12:02

    […] Sorgente: Il socialismo tradito: le cause della caduta dell’URSS* […]

    1. Alberto F says: 6 Novembre 2016 at 18:13

      Grazie per il consiglio, qual è la tesi principale del libro?

      1. foreignpoliticsblog says: 6 Novembre 2016 at 18:27

        lo sto ancora leggendo, potrò essere più chiaro quando lo finisco. intanto ti posto il video della presentazione. https://youtu.be/wWMvIcegpx0

  2. Roberto says: 22 Febbraio 2017 at 18:17

    Ottimo articolo ed ottima ricostruzione. Sul socialismo cinese comunque nutro diverse perplessità.

    1. Alberto F says: 22 Febbraio 2017 at 19:38

      Grazie. Per quanto riguarda il socialismo cinese, la questione è cruciale e merita approfondimento, crediamo vi sia una visione un po’ distorta dall’eurocentrismo anche tra i comunisti occidentali riguardo lo sviluppo della Cina popolare, se interessa https://lottobre.wordpress.com/2016/05/06/impressioni-dalla-cina-popolare/

  3. Alberto DI Rocco says: 7 Dicembre 2020 at 15:17

    Concordo. C’è troppa arroganza da parte dei comunisti occidentali nei confronti della Cina. Ok, non è un paese socialista modello. Ma è un paese impegnato in un colossale processo di sviluppo che ha permesso l’uscita dalla povertà di 700 milioni di persone. Numeri impressionanti. Ci vuole più realismo e più umiltà da parte dei comunisti occidentali. Anche perché non mi pare che possano vantare dei grandi trionfi negli ultimi trent’anni. I comunisti cinesi sì, invece.

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