La macchina delle primarie del PD (Partito Democratico) ha girato di nuovo a vuoto ieri, per scegliere i candidati alle amministrative di maggio, producendo il solito nulla politico, esaltato dalla stampa borghese e dai politicanti di riferimento come « democrazia ».
In realtà questa estensione diretta dell’elettoralismo, è una delle forme più deteriori della partecipazione sedicente democratica; tecnicamente non è altro che la sublimazione del potere clientelare, della capacità degli amministratori e segretari locali di ingannare e mobilitare masse destrutturate e imporre il predominio di interessi costituiti in altro luogo.
Ideologicamente siamo di fronte al trionfo dell’interclassismo superficiale e reazionario, della «gente» che si mobilita, della «società civile» che non esiste se non nei salotti dei giornalisti e attivisti al soldo dei monopoli industriali e mediatici, chiamata a convalidare l’esistente, sotto la veste rassicurante del buon cittadino.
Il rito delle primarie accontenta così il circuito mediatico romanocentrico e la classe medio-alta piena di buone intenzioni e di impegno politico, in particolare quel disgustoso monopolio facente capo a Repubblica – e incensa il Renzi di turno – mentre svilisce ancor di più se possibile il ruolo dei partiti di sinistra: da organizzatori e pensatori collettivi, guida e supporto delle lotte operaie, a ricettacolo degli umori scomposti delle folle e dei preziosi consigli di altezzosi intellettuali borghesi.
Con le primarie il partito diventa club elettorale al servizio degli arrivisti, opportunisti e ambiziosi spalleggiati dai poteri economici locali più infuenti, fa finta di aprirsi alla società per meglio imporre l’arbitrio politico della Presidenza del Consiglio. Le primarie contribuiscono a rendere l’attività politica individualista, astratta, degna di un talk-show televisivo dove tenori ambiziosi si allenano a cercare il consenso effimero per farsi eleggere, o farsi pubblicità, che è lo stesso.
L’idea stessa di partito è distrutta, l’unico simulacro di democrazia interna resta il confuso plebiscitarismo filo-governativo e l’unico collante l’aggancio ai potentati economici dominanti, sempre gli stessi. L’intermediazione necessaria degli iscritti e dei quadri di partito, dei militanti e dei dirigenti, della vita democratica congressuale, delle discussioni sulla linea, del voto cosciente, dell’attività costante e strutturata, evapora e perde importanza nell’indistinto clamore declamatorio dei tribuni improvvisati.
Come gli USA insegnano, la politica che diventa spettacolo e dipende dal denaro manipola il consenso e imbriglia la mobilitazione, abbandona ogni nozione di controllo di qualità, raschia nel fondo del barile degli istinti di bottega e di quartiere, diventa una macchina da brogli legalizzati, si perde in tecnicismi, guerre di ricorsi legali, slogan semplicistici e alla moda. Così facendo ingigantisce lo spazio dell’astensione, del cinismo e della disillusione, ma nel loro mondo borghese i politici si accontenteranno anche di dieci voti, purché i loro media siano disposti a parlarne tutti i giorni.
Le primarie si configurano oggi come la forma politica prefabbricata preferita dell’oligarchia italiana. A ogni monopolio il proprio partito, ad ogni partito la propria fetta di torta e a ogni corrente del partito la propria parte sul territorio. Inoltre sono usate per legittimare ogni volta a posteriori un Governo e un Presidente del Consiglio abusivi, che non perdono occasione di trasformare ogni mobilitazione elettorale in referendum personalistico.
Insomma tale sistema riproduce capillarmente e diffonde nella società, esasperandoli, tutti i difetti del parlamentarismo borghese, spacciati per virtù: il predominio dei bei discorsi e delle promesse sulla sostanza e la coerenza, la battaglia tra fazioni delle classi borghesi, gli egoismi personali per l’occupazione delle alte cariche, la demagogia ruffiana, la riuscita individuale sulle spalle della collettività.
Le mobilitazioni plebiscitarie fanno fortuna sulle rovine dei partiti di massa; mettono in luce la vacuità del pluralismo quando diventa generico moltiplicatore di forme, etichette, partiti e partitelli utile a nascondere l’unicità monolitica dei contenuti, l’ortodossia economica capitalistica, il conformismo e l’involuzione culturale: la coscienza di classe è svuotata dall’incoscienza della folla in movimento.
Le primarie sono un affare per agenzie di comunicazione, un bacino pubblicitario per chi se lo può permettere, un cappello messo in testa da politicanti, politologi e giornalisti alla società sfibrata dalla crisi. Un’imposizione esterna, scollegata da tutto ciò che non sia televisione, uffici di marketing politico e casse occulte in mano a finanzieri privati e baroni sul territorio. Sono un’illusione, che invece di allargare lo spettro partecipativo restringe la capacità cosciente dei lavoratori di dare una rappresentanza consapevole ai propri interessi collettivi.
Un abisso separa le primarie dalla democrazia come la intendiamo noi, che nasce e vive nei luoghi del lavoro – ovvero i luoghi che più di tutti strutturano la vita sociale e individuale – e risale di grado in grado fino a abbracciare la dimensione intera della società. Una democrazia diffusa e capillare, che porti la voce del popolo, tramite i suoi elementi lavoratori. Una democrazia embrionale da far crescere e progredire dentro il sistema borghese, affinché lo disgreghi e lo rimpiazzi completamente.