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La Palestina e la resistenza

Palestina e la resistenza

di Alberto Ferretti

I recenti crimini dell’imperialismo USA/NATO in Siria e in Ucraina – dove i nostri governi appoggiano fascisti e islamisti al fine di sottomettere nazioni indipendenti – rischiano di far passare in secondo piano, come un triste ma trascurabile rumore di fondo, la madre di tutti i crimini capitalistici contemporanei: l’oppressione del popolo palestinese da parte dell’entità sionista.

Questa oppressione si protrae dal 1948 quando Ben Gourion fondò lo Stato ebraico in Palestina ed espulse dalle loro terre le popolazioni arabe residenti – evento qualificato come “Nakba” (catastrofe) dai Palestinesi, e come “Guerra d’Indipendenza” dagli israeliani. All’epoca, le nazioni occidentali, sentendosi a giusto titolo colpevoli per l’Olocausto, frutto dell’antisemitismo istituzionale dell’Europa borghese, si sentirono in dovere di “dare una casa agli ebrei” e lasciarono i sionisti, cioè la fazione politica liberal-nazionalista della diaspora ebraica, praticare l’occupazione selvaggia di quelle terre.

All’abominevole crimine dell’Olocausto i Paesi capitalisti tentarono di rimediare così con un altrettanto orribile crimine, e a fare le spese della follia nazifascista europea furono in ultima istanza le popolazioni del Medio Oriente che non avevano niente a che fare coi nostri misfatti antisemiti.

Una volta installato il problema lontanto dai nostri territori, abbiamo poi contribuito a creare le condizioni perché tutto potesse andare nel peggiore dei modi possibili. Abbiamo armato l’occupante. La Francia in particolare dotò Israele della bomba atomica, sicuramente per farsi perdonare lo sterminio degli ebrei praticato dalle classi dirigenti francesi tra il ’41 e il ’45.

Lo Stato ebraico – nient’altro che l’ennesimo regime capitalista – iniziò a espandersi e ad avere bisogno di Guerra per consolidare il proprio sviluppo economico. Inglobò così ulteriori territori, continuò a sottrarre terre, per infine lanciarsi in occupazioni selvagge servendosi degli orribili coloni – fanatici religiosi e violenti. Infine rinchiuse un milione e mezzo di palestinesi in una gabbia chiamata Gaza, di cui si servono periodicamente per testare le armi (comprese quelle chimiche) di ultima generazione prodotte dall’industria Israelo-americana degli armamenti. 

I media e i governanti presentano da decenni questa situazione come “diritto di Israele a difendersi” (!), che è un po’ come riconoscere a un ladro il diritto inalienabile di difendersi dalla rabbia e dalla reazione dei padroni di casa di cui ha preso il controllo relegandoli in cantina. Essi parlano di democrazia, perché dei massacratori di palestinesi vengono regolarmente eletti in elezioni parlamentari grazie a manovre politicanti e manipolazioni da stato di guerra permanente. Tutto ciò è perfettamente conosciuto, e accettato come una fatalità dai benpensanti borghesi. Ma in tutto questo dimentichiamo un punto essenziale.

Capitalismo realizzato in Medio oriente

Israele non è solo uno Stato oppressore di Palestinesi. Il carattere peculiare dello Stato israeliano è di essere lo Stato della nazione economicamente più sviluppata del Medio Oriente, sviluppo finanziato dei Paesi avanzati occidentali, in particolare degli USA, sostenuto dall’inclusione nel mercato globale e favorito dalla predazione indiscriminata delle risorse palestinesi.

Da questa oggettiva situazione economica derivano le condizioni politiche peculiari a ogni nazione avanzata, ovvero un compiuto regime parlamentare borghese al servizio delle classi possidenti. Di qui lo “Stato più democratico del Medio Oriente” – come amano propagandare liberali e la sinistra riformista scendiletto dell’imperialismo – ovvero lo Stato che corrisponde alla forma della più avanzata proprietà privata borghese.

Israele è uno Stato capitalista realizzato nella sua più moderna forma neo-liberale, militarizzato, coloniale come lo furono la Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia etc. all’epoca d’oro dei massacri impuniti di popolazioni indigene in giro per il mondo, e al tempo stesso e necessariamente oppressivo nei confronti della propria popolazione lavoratrice.

Esso pratica il lavaggio del cervello nazional-razzista ai suoi cittadini, nonché l’apartheid nei confronti della popolazione araba poiché, con un tasso di povertà che supera il 20% (il più alto tra i Paesi sviluppati), il 30% della popolazione a rischio povertà, le enormi disuguaglianze che ne fanno il quinto Paese al mondo in questa poco nobile classifica (1), fare degli “arabi” un nemico – rubandogli sistematicamente le terre e spingendoli alla più scomposta e disperata reazione -, permette di alimentare una costante propaganda da stato d’assedio che impedisce, anzi criminalizza, qualsivoglia pensiero critico sulla crisi sociale interna.

Il razzismo anti arabo è funzionale dunque non solo alla giustificazione ideologica dell’oppressione, ma serve soprattutto per tenere buone le classi popolari, distrarle dal nemico interno: le classi dominanti, che si arricchiscono sulla guerra permanente e i governanti asserviti agli interessi coloniali della borghesia israeliana collusa col ceto religioso. Affinché, invece di rivoltarsi, il popolo chieda il sangue dei palestinesi, rendendosi così complice di un massacro da cui i lavoratori non traggono nessun beneficio, se non l’onore di morire come soldati dell’esercito ammazzando minorenni nei territori occupati.

Aizzare la guerra tra oppressi per governare indisturbati è una sempre efficace tattica di dominio. Ingannati e corrotti, traumatizzati dallo stato di guerra, arruolati di forza, i lavoratori israeliani sembrano scivolare nel collaborazionismo, nell’asservimento spirituale al progetto neocoloniale delle classi superiori israeliane. L’onnipotenza dell’esercito e dei servizi segreti, rende complicato per le forze interne operaie far sentire una voce di classe senza essere tacciati come “nemici della nazione”.

Due popoli due stati, o uno Stato per due popoli?

La situazione appare così incancrenita (ma in realtà è perfetta per chi ha interesse a mantenere le cose come stanno), da essere destinata a perdersi negli eterni tavoli dei negoziati ONU, alquanto inutili almeno finché i rapporti di forza saranno così sfacciatamente a favore di Israele. In queste condizioni non c’è infatti nulla da negoziare per i Palestinesi. Se non accettare la colonizzazione in silenzio, perché lo Stato israeliano non ha né l’intenzione, né la possibilità, né l’obbligo di fermarsi.

Intanto, la soluzione più dibattuta nei circoli diplomatici e sui media è quella riassumibile nella formula “due popoli due Stati”. A nostro modesto avviso invece, l’unica soluzione realista e attuabile consisterebbe, per due popoli che condividono lo stesso territorio, nella creazione di uno Stato multinazionale e multietnico, basato sul principio del federalismo socialista. Ma per questo occorrerebbero delle precondizioni quali:

1) Una lotta di liberazione nazionale palestinese sul modello di quella vietnamita, organizzata, di popolo e guidata dal fronte di liberazione nazionale, laico, progressista e repubblicano, che abbia come bersaglio l’esercito e le colonie. Un’organizzazione disciplinata e solida, strutturata intorno al FPLP – Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Le sollevazioni improvvisate e spontanee, per quanto comprensibili e sostenibili, lasciano tutto lo spazio e il pretesto alla rappresaglia.

2) Un movimento rivoluzionario interno a Israele, condotto dalle classi lavoratrici coscienti arabo-israeliane contro l’oppressione della borghesia, della destra fanatica, dal clero fondamentalista.

3) La saldatura fraterna tra queste due forze – Esercito Popolare Palestinese e forze rivoluzionarie israeliane – per marciare verso l’obiettivo comune, cioè la costituzione dello Stato federale socialista israelo-palestinese, laico, garante della pace tra le due nazionalità, possibile solo se fondata sulla loro uguaglianza economica.

Questo Stato centralizzato multi-nazionale e multi-etnico sarebbe l’unico in grado in tutta autonomia di organizzare quei trasferimenti economici dalla parte più ricca del Paese, quella israeliana, alla parte povera, quella palestinese. Trasferimenti necessari per ricostruire le zone depresse al fine di elevare lo standard di vita dei territori palestinesi.

La storia insegna che è possibile. L’URSS fu un esempio di convivenza pacifica di etnie, nazionalità e religioni le più disparate, e di trasferimenti tecnologici dal centro, la Russia, alle periferie meno avanzate, si pensi alle Repubbliche asiatiche. Lo stesso fecero i governi comunisti in Cecoslovacchia nel dopoguerra, dove la Slovacchia arretrata fu elevata al livello della ben più sviluppata Repubblica Ceca. Lo stesso fa la Cina nei confronti delle regioni centrali arretrate, e il miracolo economico del Tibet, da Stato feudale in mano a una casta di monaci reazionari a moderna Repubblica autonoma in via di sviluppo ne è l’esempio più eclatante.

Di inattuabile e irrealistico secondo noi c’è solo il piano dei “due stati due popoli”, che prevede il ritiro unilaterale di Israele da territori annessi nel ’67 e la cessione di una parte di Gerusalemme come capitale del futuro ipotetico stato palestinese. Chi mai cederebbe di propria spontanea volontà tali risorse, soprattutto quando nessuno può togliergliele?

Inoltre, l’ipotetico Stato palestinese sarà inevitabilemente uno Stato in miseria, costretto a inginocchiarsi alle potenze capitalistiche per i finanziamenti allo sviluppo, a fronte di un nuovo Stato di israeliano diminuito dei territori attuali, ma prospero e tecnologicamente all’avanguardia… e probabilmente creditore nei confronti del nuovo bisognoso Stato palestinese!

Di fronte a questo scenario, tra le chiacchiere per diplomatici dell’ONU intorno a una linea che, i fatti dimostrano, serve solo a trascinare il problema all’infinito in favore delle classi dominanti israeliane, e l’opzione lontana e difficile – ma realistica – della lotta di liberazione nazionale e della rivoluzione, quest’ultima appare l’unica possibilità per far nascere un giorno la pace in Medio Oriente, nell’uguaglianza tra popoli e nazioni, senza oppressi né oppressori. 


(1) http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/aic/israele-il-paese-pi%C3%B9-povero-dell%E2%80%99oecd

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