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Socialismo ed ecologia: il caso cinese

Socialismo ed ecologia

di Alberto Ferretti

Riguardo la questione del cambiamento climatico, o per meglio dire della gestione dell’ambiente e delle risorse del pianeta, una cosa è chiara: i lavoratori e i paesi poveri saranno come sempre chiamati a pagare i danni di un inquinamento fuori controllo. I bisogni elementari sono minacciati: acqua, approvvisionamenti alimentari, un ambiente sano e vivibile, soprattuto nelle città dove la segregazione di classe è più accentuata. Insieme alle disuguaglianze sociali senza precedenti, l’attuale società è un incubo per i lavoratori e nulla lascia presagire un miglioramento.

Per i comunisti è chiaro che ogni politica alternativa di sviluppo e consumo energetico si svilupperà nella lotta contro i monopoli del petrolio e dell’energia, che ragionano in termini di profitti per i loro azionisti privati e non di sostenibilità ambientale.

Problemi sociali ed ecologici vanno dunque di pari passo e non possono essere decorrelati, pena perdere la dimensione di classe della questione, senza la quale l’ecologia non ha senso da un punto di vista sociale né interesse per le classi subalterne, e senza la quale nessuna politica può uscire dall’ambito ristretto riformista, dunque inefficace, della lotta contro l’inquinamento.

La transizione ecologica deve mirare a creare lavoro migliore, impieghi di buona qualità e salvaguardare l’ecosistema. “Salvare il pianeta” è un pio desiderio se non si prende coscienza della necessità di sovvertire il sistema economico, per poter cambiare qualcosa al livello ambientale. In quest’ottica, la privatizzazione delle risorse e dei servizi pubblici va contro gli stessi obiettivi che i governanti borghesi, a parole preoccupati per il clima, sbandierano in favore di telecamere, mentre privatizzano tutto il privatizzabile.

Nei paesi a capitalismo maturo la questione del cambiamento climatico dipende quindi direttamente dalla questione del cambiamento di sistema economico, cioè del passaggio al socialismo. Ogni altra visione è puramente idealista e scollegata dalla realtà: voler cambiare il clima senza voler cambiare le cause strutturali economiche che lo degradano rileva del più puro slogan politicante, buono per alimentare la stampa durante i grandi meeting mediatici i cui negoziati partoriscono il nulla, da Copenaghen 2010 a Parigi 2015.

La questione ecologica è una subordinata della questione sociale, come tale deve essere trattata. E per questa ragione chiama in causa il concetto e la pratica della pianificazione economica. Solo una logica di piano della produzione sociale e quindi nello sfruttamento delle risorse, che sia alternativa all’anarchia di mercato determinata dalla logica di profitto capitalista, può infatti garantire passi in avanti concreti nella direzione della salvaguardia delle risorse del pianeta.

Dunque per essere realistica e seria la questione ecologica presuppone necessariamente la presa di controllo delle leve economiche da parte delle classi lavoratrici. Senza di essa non ci può essere pianificazione che determini quella riorientazione del capitale e degli investimenti che – prendendo in primo luogo conto degli aspetti di reindustrializzazione e innovazione qualitativa del processo di prodotto indispensabili per uscire dalla crisi e rinnovare la società – integri la variabile ecologica nell’eleborazione dei processi produttivi alla luce degli obiettivi sociali di produzione democraticamente determinati. Certo non è il caso oggi in Occidente dove la speculazione, l’accumulazione, i profitti privati e il cortotermismo determinano in maniera antidemocratica –quindi antioperaia e antisociale – le scelte economiche degli Stati.

Eliminare lo spettro della sovraproduzione – strutturale al modo di produzione capitalistico e foriera di crisi cicliche che gettano sul lastrico la classe operaia e lavoratori tutti – equivale a pianificare la produzione di beni socialmente utili, calibrati usando le materie prime disponibili e processi di produzione ecologicamente ponderati in base alla sostenibilità sociale, da stabilire politicamente al di fuori del recinto del profitto privato.

Vediamo concretamente come i comunisti oggi risolvono questo problema. Ad esempio, la Repubblica Popolare Cinese è regolarmente stigmatizzata per la sua gestione ambientale, ma quello che nessuno dice – perché va sempre di moda demonizzare i comunisti – è che:

  1. L’indice di inquinamento delle città cinesi è ben inferiore a quello della quasi totalità delle metropoli indiane, pakistane, iraniane, africane e del Bangladesh, e all’incirca allo stesso livello di quello di Città del Messico. Eppure la Cina registra un tasso di crescita ben superiore, per costanza, qualità e quantità, a quella registrata in tali Paesi. Essa raggiunge traguardi economico/sociali formidabili per una popolazione alla quale sono forniti miglioramenti effettivi di condizioni di vita che i suddetti Paesi non garantiscono affatto ai propri cittadini.
  2. Ciò significa che la Cina utilizza le risorse a disposizione in maniera più efficace, equilibrata e controllata. Essa raggiunge i suoi straordinari obiettivi con un impatto ambientale relativamente migliore rispetto ai suoi competitors in via di sviluppo e dalle performance economico/sociali non comparabili. E a ben guardare anche rispetto ai suoi partner occidentali, i quali sono in piena crisi economica, dunque in piena regressione sociale, ma aggravano invece di diminuire il loro impatto ecologico. Sia chiaro, la Cina è un Paese che conta 1 miliardo 300 milioni di abitanti che è diventato in 40 anni la seconda potenza economica mondiale: in termini assoluti le emissioni cinesi sono altissime. Ma si può incolpare un Paese e la sua classe dirigente per aver lavorato durissimo per estrarsi dalla miseria più nera e dallo schiavismo coloniale, (la Cina era il Paese più povero al mondo nel ‘49) anche a costo di degradare temporaneamente l’ambiente? No ovviamente. Soprattutto quando in termini relativi la Cina socialista è stata più virtuosa dei propri vicini e anche dei governi occidentali capitalisti. Purtroppo molti a sinistra e a destra pensano il contrario: in soldoni, meglio la miseria che l’industrializzazione, soprattutto se aiuta un Paese socialista a diventare autonomo.
  3. Va inoltre sottolineato che la Cina è il leader mondiale nello sviluppo del settore dell’energia solare e alternativa, essa esplora attivamente e concretamente la fattibilità di una fonte di energia sostitutiva per l’avvenire, non solo a parole. Colossali sono gli investimenti e attenta è la pianificazione, la valutazione e la verifica di tale tecnologia, senza versare nell’idealismo, senza cioè commettere l’errore di affidarsi unicamente alle rinnovabili, in quanto economicamente non ancora sostenibili. Salvo darsi come obiettivo l’arresto dello sviluppo economico/sociale. Ovviamente nessun comunista e democratico può realisticamente parteggiare per un tale punto di vista, degno di fanatici ecologisti, sognatori di mondi bucolici, intellettuali delle decrescite felici.
  4. Il XXII Piano quinquennale ha stabilito la progettazione di nuove città interamente funzionali dal punto di vista ecologico, l’obiettivo a lungo termine è l’edificazione di città ecosostenibili per milioni di abitanti nell’ottica di una nuova urbanizzazione verde.
  5. La Cina sta portando a termine il programma di riforestazione più ambizioso del pianeta, come certificato dall’Onu.

Così, mentre nell’immaginario collettivo i media costruiscono l’immagine negativa della Cina soffocata dallo smog, la realtà ci dice che la pianificazione cinese, compatibilmente con le sue esigenze di sviluppo, è un modello di gestione sociale/ecologica che funziona: sia dal punto di vista dello sviluppo, sia per la presa di coscienza ambientale. La politica socialista cinese prende forma concreta in disposizioni di legge efficaci. E ora che i bisogni fondamentali della popolazione cominciano a essere soddisfatti in maniera uniforme, può essere messa sul tavolo della pianificazione una riconversione verso un modello di sviluppo qualitativamente superiore, più rispettoso dell’ambiente in maniera nuova.

Ciò dimostra nella prassi come solo una pianificazione cosciente, che ha come prerequisito la presa di controllo dei mezzi produttivi e del credito, sia in grado di tener conto concretamente degli interessi ambientali, senza bisogno di belle parole e discorsi vaporosi da premi Nobel.


1) http://www.internazionale.it/notizie/2015/12/03/allarme-inquinamento

http://rue89.nouvelobs.com/2015/09/03/non-pekin-nest-ville-plus-polluee-monde-261042

2) http://www.qualenergia.it/articoli/20150701-clima-ecco-il-piano-cinese-carbon-intensity-tagliata-del-60-65-percento-entro-il-2030

3) http://omissisnews.com/cina-rimboschimento-massivo-contro-linquinamento/

http://www.unric.org/it/attualita/26573-fao-la-deforestazione-diminuisce-a-livello-globale-ma-rimane-allarmante-in-molti-paesi

4) http://www.cinaforum.net/boom-settore-ecologia/

2 Replies to “Socialismo ed ecologia: il caso cinese”

  1. Cina Popolare/Unione Europea: l’insostenibile paragone – Ottobre says: 30 Gennaio 2016 at 18:37

    […] UE e gli USA, con salari che stagnano o arretrano e diritti sociali inesistenti o sotto attacco, mentre la Repubblica Popolare si sviluppa in maniera quantitativamente e qualitativamente superiore, a tal punto non solo da aver distanziato enormemente i partners dei BRICS, ma di raggiungere i […]

  2. Ecologismo e marxismo – Ottobre says: 10 Luglio 2019 at 13:05

    […] Leggere anche il nostro precedente articolo: Socialismo e ecologia […]

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