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La crisi finanziaria in Cina: differenze col modello capitalistico

crisi finanziaria Cina

di Alberto Ferretti

Una crisi finanziaria ha inizio generalmente con la vendita massiva delle azioni (o dello stock di moneta sovrana, o di titoli del debito pubblico) detenute da quegli operatori di mercato che hanno la stazza adeguata per movimentare grossi quantitativi di capitale. Tale uscita di capitali fa crollare improvvisamente il prezzo degli attivi e determina perdite consistenti di capitalizzazione in Borsa: perdite che gettano in rovina i detentori dei titoli svalutati.

Su questa dinamica si innesta poi la speculazione, e arricchisce gli speculatori più abili e meglio attrezzati, supportati dai fondi d’investimento e dalle banche d’affari internazionali nella compravendita.

La crisi della Borsa fragilizza l’economia nazionale, gettando nel panico governi e popolazioni. Nel frattempo la stampa borghese diffonde allarmismi e previsioni apocalittiche, mentre le fughe di capitali spingono i poteri pubblici applicare misure volte a dare “fiducia ai mercati”. Ovvero, piegarsi al volere degli speculatori, in tutto e per tutto simile a un ricatto: la scelta è tra l’applicazione di misure monetarie suscettibili di valorizzare il portafoglio finanziario degli investitori, oppure il persistere del crollo della Borsa.

Questa è la regola di un’economia capitalista ad alto tasso di finanziarizzazione, una strategia per aumentare i profitti a breve termine. Esempio lampante di tali comportamenti speculativi, e delle variegate dinamiche connesse, è la terribile crisi economica asiatica che mise in ginocchio gran parte del continente nel ‘97. Oppure l’attacco organizzato contro la Gran Bretagna e altri paesi europei nel ‘92. Tali pratiche hanno come effetto, a seconda del contesto, la perdita di credibilità del sistema-paese nei confronti degli attacchi dei conglomerati finanziari, la semi-colonizzazione per via dei prestiti contratti per arginare la crisi, la generalizzazione della miseria, la privatizzazione delle risorse nazionali.

La crisi finanziaria in Cina: un modello di gestione

Questo è lo scenario che il capitale aveva previsto per la Cina nei mesi scorsi (1). Se non fosse che lì le regole non le fa il “libero mercato”, ma il partito comunista. La Cina sta come noto lasciando sviluppare parte delle forze produttive su base capitalistica, pur controllando gli strati più importanti e strategici dell’economia. Ciò è vitale per alimentare la fase di sviluppo che prevede di far diventare la Cina un paese mediamente avanzato a orizzonte 2020. In Cina infatti ancora 300 milioni di persone vivono nelle campagne, e sebbene l’estrema povertà sia sensibilmente diminuita e l’analfabetismo sia stato sradicato, la strada è ancora  lunga per portare uno sviluppo uniforme su tutto il paese.

La via individuata da Deng – le riforme di apertura in un quadro di relativa non belligeranza con l’Occidente capitalista – fa affluire dal ’79 quei capitali che, ben controllati e organizzati, hanno permesso alla Cina di passare dal poco invidiabile status di paese più povero del mondo nel 1949 a quello di seconda economia mondiale.

Il partito chiama questa fase “Socialismo con caratteristiche cinesi“. Un’economia di mercato dirigista, dove lo Stato controlla la metà dell’apparato produttivo strategico, mentre lascia il capitalismo svilupparsi tutt’intorno. Una NEP gigantesca, come l’ha definita Domenico Losurdo (2), tappa fondamentale per raggiungere quel grado di sviluppo che permetta la transizione dalla Repubblica Popolare attuale alla Repubblica Socialista futura.

Né gli ultra-settari comunisti né i radicali borghesi di sinistra potranno mai capire il senso dello sviluppo cinese, se rimangono inchiodati alle litanie – aprioristiche – su una Cina che avrebbe abbandonato definitivamente il socialismo per abbracciare un capitalismo più arretrato e autoritario. Sono le stesse argomentazioni senza costrutto che la stampa borghese sciorina regolarmente, fraintendendo completamente il modello di sviluppo cinese poiché incapaci di inquadrarlo in un più ampio e dinamico orizzonte storico.

La verità è che pur avendo lasciato sviluppare parziali rapporti capitalistici di produzione, il PCC – il quale ricordiamo ha il sostegno del popolo cinese, checché ne dica la stampa internazionale sempre in preda agli accessi di isteria contro i cattivi comunisti – ha espropriato politicamente la borghesia degli affari, che non ha difatti voce in capitolo nel governo della Cina. Certo si tratta di una manovra di portata storica enorme e una ritirata tattica notevole. Questo modello di sviluppo, in queste condizioni storiche, prevede inevitabilmente una parziale la libertà del capitale e l’organizzazione del finanziamento delle aziende anche su basi di compra-vendita di titoli azionari. Da qui, l’esistenza di una Borsa cinese, con tutti i pericoli connessi. Uno di questi pericoli è l’attacco speculativo organizzato dal capitale internazionale (cioè occidentale) del tipo descritto sopra, che può mettere in ginocchio un paese e legarlo mani e piedi alle istituzioni internazionali al fine di bloccarne lo sviluppo autonomo.

Gestione socialista di una crisi capitalista

Il governo cinese ha sventato un attacco di questo tipo, tramite misure economiche che da noi sarebbero considerate eretiche (3):

  • Abbassamento dei tassi di interesse, al contrario delle prescrizioni del FMI, per non soffocare l’attività delle imprese
  • Nazionalizzazione degli stock, con un fondo d’acquisto pubblico di 9000 miliardi, un vero e proprio bazooka, compratore in ultima istanza dei titoli svenduti al fine bloccare il crollo dei prezzi, e quindi della Borsa.
  • Divieto alle aziende di Stato di vendere e comprare azioni per 6 mesi, al fine di bloccare il movimento di capitale
  • Arresto dei broker, speculatori e allarmisti, chiunque stesse approfittando della situazione

Queste misure – odiose sia per la delicata borghesia progressista che legge Repubblica e il Manifesto sia per gli ambienti d’affari internazionali che si riconoscono nel Wall Street Journal e nel Financial Times – hanno bloccato sul nascere la catastofe annunciata, e impedito che il “libero mercato” gettasse nella miseria centinaia di milioni di persone, chiedendo un tributo di sangue alle classi popolari del più grande e sviluppato dei paesi asiatici anti-imperialisti.

E in definitiva la reazione delle autorità cinesi ha impedito che le forze politiche legate ai circoli occidentali – i nostri uomini a Pechino – potessero approfittare del malcontento popolare che una crisi inevitabilmente avrebbe generato, per favorire un cambio di regime capitalista e pro-occidentale. La rivoluzione colorata tentata – e svantata – a Hong Kong lo prova.

Queste misure hanno impedito soprattutto agli investitori di portare fino in fondo le loro rodate manovre di presa di profitto e destabilizzazione, quindi hanno fatto gridare allo scandalo la stampa borghese, abituata a vedere i governi piegare il capo contriti sotto la forza del capitale e applicare senza fiatare le misure prescritte dalle istituzioni finanziarie internazionali.

Folli di rabbia per il colpo andato a male, i capitalisti strepitano ora dalle loro gazzette contro una Cina a loro avviso irresponsabile e immatura, perché non ha lasciato ai mercati la possibilità di fare i danni che sono soliti fare quando scatenano gli attacchi speculativi su paesi a regime capitalista. E quindi concludono che la Cina non è affidabile: e a ragione. La Cina non à affidabile per il capitale internazionale, poiché segue il proprio modello di riforme senza flettere dai principi e dagli obiettivi socialisti.

Se un insegnamento dobbiamo trarre dunque da questi avvenimenti, è che il potere operaio può lasciare spazio alle forze di mercato, ma un autentico potere operaio non permetterà mai, costi quel che costi, alle forze di mercato di prendere il sopravvento politico e scalzarlo dalla guida del paese.

Sviluppare le forze produttive con un importante utilizzo del settore privato genera dei rischi, di cui la dirigenza cinese è perfettamente cosciente, ma un partito coerente coi propri principi e chiaro sugli obiettivi impara a gestirli per preparare il futuro sulle basi dei successi e degli errori di una seria esperienza di governo.


1) https://www.ilpost.it/2015/07/08/bolla-finanziaria-cinese/

2) Per approfondire e capire il modello di sviluppo cinese, un’intervista a Domenico Losurdo : http://www.marx21.it/internazionale/cina/25980-cose-davvero-la-cina-intervista-a-domenico-losurdo-prima-parte.html#

3) https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/08/31/cina-giornalista-arrestato-confessa-in-diretta-tv-crollo-delle-borse-colpa-mia/1996610/

3 Replies to “La crisi finanziaria in Cina: differenze col modello capitalistico”

  1. Combattere la reazione – Ottobre says: 11 Ottobre 2015 at 18:54

    […] Farsi portare dalla corrente dei mercati o essere isolati, messi sotto pressione e demonizzati quotidianamente sui grandi media “liberi” occidentali, infine minacciati e attaccati: ecco la non lusinghiera alternativa in cui si trovano i Paesi poveri, o in via di sviluppo, o ricchi di risorse energetiche, che non hanno le spalle abbastanza larghe per resistere, come può e fa la Repubblica Popolare Cinese. […]

  2. Le mani sul mondo: l’imperialismo dopo la grande recessione – Ottobre says: 22 Novembre 2015 at 16:12

    […] da spugna – in maniera interessata – alle pressioni del Capitale globale. In questo, la politica economica cinese attuale riveste un ruolo di pragmatico pacificatore: una chiusura nazionalista, da sinistra, […]

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