Le nostre classi dirigenti ci ripetono fino alla nausea – dalle loro televisioni e dai loro giornali – la solita solfa: i soldi sono finiti, attraversiamo una crisi dovuta a Stati spendaccioni oberati di debiti, e la colpa è dei lavoratori che, oltre a uno stipendio mensile, pretendono pure di avere le ferie pagate, i contributi, la scuola e la sanità gratuite. Cospargetevi il capo di cenere e pentitevi per le vostre colpe! Per uscire dalla crisi, dovete dimenticare tali diritti, lasciarvi impoverire dalle riforme, e cominciare a pagare per tutto.
Il semplicismo di questa « tesi », unito alla ripetizione ossessiva del messaggio, la rende efficace. Tuttavia è facile rendersi conto che si tratta in realtà di una gigantesca balla: innanzi tutto perché i soldi non sono finiti per niente, anzi non ce ne sono mai stati così tanti in circolazione. Tuttavia sono nelle tasche di un pugno di ricchi, che li nascondono nei paradisi fiscali, quando la normale protezione assicurata dagli Stati borghesi ai loro capitali non soddisfa appieno le loro esigenze. Ma dato che i desideri dei ricchi sono costantemente trasformati da economisti compiacenti in verità economica – e dai politici in leggi – le fissazioni padronali diventano luogo comune per la società intera, veicolato a reti unificate dai media di loro proprietà.
Crisi per chi?
La crisi che stiamo attraversando incide in maniera diversa a seconda delle classi sociali: fa malissimo alle classi popolari, colpisce duramente la classe media, fa del bene alla borghesia. Questo non è un giudizio, ma un fatto, provato dai numeri. Dal 2008 in poi essa ha visto aumentare come non mai i propri patrimoni grazie ai formidabili profitti generati dalle loro proprietà[1]: ovvero le azioni e partecipazioni possedute nei grandi gruppi, imprese e veicoli finanziari – la cara vecchia proprietà privata borghese dei mezzi di produzione. La borsa e i mercati arricchiscono gli uni, mentre impoveriscono gli altri, con la complicità dei governi. Per ogni nuovo super-ricco, decine di migliaia di cittadini vedono sprofondare il loro tenore di vita. Fino alla macelleria sociale odierna: solo in Italia si contano 4 milioni di poveri in più dall’inizio della crisi nel 2008[2].
Che a causare tutto questo sia stato il debito accumulato da uno Stato sociale lassista al servizio di un’orda di assistiti è talmente falso da non dover neanche essere commentato, se non si trattasse della verità ufficiale. La vera verità è invece quella che ci indicano i fatti: la crisi è esplosa nel settembre 2008 con la caduta della Lehman Brothers, all’epoca la più importante banca d’affari al mondo, la quale aveva indebitato per anni imprese e privati, fino al punto in cui nessuno fu più in grado di rimborsare.
Oberata da crediti inesigibili coi quali aveva finanziato il consumo e quindi la produzione in eccesso di mezza America, Lehman Brothers spacciava titoli finanziari tossici ai più importanti istituti finanziari del globo, i quali in seguito alla sua caduta si ritrovarono con enormi buchi di bilancio. La chiusura dei rubinetti del credito generò fallimenti a catena, e lo Stato americano fu richiamato all’ordine dai capitalisti al fine di rimpinguare coi soldi pubblici le perdite degli istituti finanziari, garantendo così i profitti degli azionisti. E indovinate come? Indebitandosi con gli “investitori”, stampando moneta, e chiedendo tributi, cioè nuove tasse, alle classi popolari e il ceto medio già spolpato dai debiti contratti!
Nel frattempo in Europa si operava un colossale movimento di capitali. Grazie all’Euro, gli investitori ricevettero a partire dal 2000 la garanzia necessaria per poter piazzare i loro capitali in paesi precedentemente considerati a rischio. Le banche di Germania, Inghilterra, Olanda e Francia, esportarono sempre più capitali verso i paesi più poveri d’Europa e ciò abbassò il costo dei prestiti. In questo modo, ripartì un nuovo ciclo di accumulazione in cui i capitalisti dei paesi esportatori si arricchivano due volte: direttamente, con gli interessi sui prestiti concessi, e indirettamente, grazie ai profitti che questi prestiti generavano quando venivano impiegati per l’acquisto di merci provenienti dalle loro stesse aziende.
In pratica, mezza Europa iniziò a comprare Mercedes e macchinari tedeschi, coi soldi presi in prestito dalle banche tedesche[3]. La bilancia dei pagamenti tra gli Stati europei collassò: la Germania creditrice netta per centinaia di miliardi, famiglie e imprese della periferia d’Europa indebitate fino al collo. Finché la bolla non esplose, e nessuno fu più in grado di rimborsare un Euro. Tutto ciò nell’arco di tempo straordinariamente breve di soli 7 anni: al primo scossone esterno vi fu il panico da spread, e i nodi giunsero al pettine.
Natura del debito contemporaneo
Di fronte a queste evidenze storiche, si parla ancora di debito pubblico insostenibile a causa dei diritti sociali acquisiti. Tuttavia è bene ricordare che prima dello scoppio della grande crisi, l’Irlanda, la Spagna e il Portogallo avevano un debito pubblico insignificante; la Grecia, che aveva falsificato i bilanci con l’aiuto di Goldman Sachs (la banca per la quale lavoravano Draghi e Monti) si ritrovava certo compromessa, ma pur sempre con un’economia minuscola – 3% della zona Euro – che non giustificava da sola la crisi epocale continentale; mentre l’Italia diminuiva virtuosamente il suo rapporto debito/PIL. Inoltre Francia e Germania vivevano tranquille, con un rapporto debito/PIL irrilevante di fronte alla stazza delle loro economie[4].
Da queste semplici constatazioni risulta evidente che non esisteva un problema di debito pubblico in Europa prima della crisi finanziaria venuta dagli USA; esisteva invece un enorme quanto latente problema di debito privato, certificato dallo squilibrio della bilancia dei pagamenti intra-europei. Di conseguenza, l’eccessivo debito pubblico non può essere la causa della crisi, semplicemente perché non esisteva prima della crisi, essendo un prodotto della stessa, nella misura e in conseguenza delle misure prese dagli Stati per salvare le banche[5].
Il senso dell’austerità
Tagli selvaggi si imposero al fine di poter rimborsare questi debiti contratti per salvare gli istituti finanziari europei, i quali fecero sprofondare l’economia in recessione, rendendo sempre più oneroso il finanziamento del debito, esposto ai ricatti dei mercati. Ma nonostante ciò, una corretta analisi di classe dell’austerità porta a concludere che essa non è un errore, bensì una scelta coerente col bisogno di trovare nuovi margini di profitto per il Capitale.
Il debito privato ha infatti mantenuto per anni in piedi un sistema produttivo in sovracapacità strutturale, e tenuto sulla linea di galleggiamento il tasso di profitto dei capitali. I lavoratori, sottoposti alla pressione sui salari, trovarono sul mercato la soluzione miracolosa di cui avevano bisogno per palliare all’impoverimento: il ricorso al debito per sostenere la produzione attraverso il consumo, legandosi mani e piedi alla corda tesa dal capitale che li avrebbe strozzati. Le imprese, iniziarono a ricevere prestiti dagli istituti di credito per finanziare l’espansione necessaria al mantenimento della redditività, mentre gli Stati, privati della tassazione progressiva, prendevano in prestito dagli stessi capitalisti liberati da tale tassazione le risorse necessarie al proprio funzionamento, caricandosi di interessi indebiti. Questo modello è giunto a termine con la crisi del 2008.
L’austerita è l’inevitabile passo successivo, l’unica via praticabile al momento per il Capitale, altrimenti non si spiegherebbe l’accanimento delle istituzioni in tal senso. Da una parte, si comprime la spesa sociale per rimborsare i creditori e per aprire nuovi spazi all’investimento privato, dall’altra si deprezza il lavoro per rimpolpare i profitti a breve termine delle imprese. E dietro banche e imprese ci sono sempre uomini in carne e ossa che incassano i profitti di un tale sistema economico.
Stiamo attraversando un’epoca di transizione, dalla fase liberista a una fase in cui un’ordine economico superiore si sta imponendo e uniformizzando, dove giganteschi gruppi organizzano la rendita parassitaria di una classe sempre piu ristretta di individui. Colossali fondi di investimento spadroneggiano, sorvolando come una nube tossica il mondo per reperire profitti. Essi si impadroniscono di aziende in difficoltà, le ristrutturano, licenziano e rivendono generando enormi plusvalenze, dopo aver distrutto l’impianto produttivo e aver lasciato lo Stato a gestire il dramma sociale dei licenziamenti e della lacerazione del tessuto economico. Intanto il debito pubblico esplode per ripagare i creditori, cioè gli stessi proprietari dei capitali che distruggono le forze produttive.
Ci sono cose che vanno dette chiaramente: gli operai non devono essere una variabile di produzione per assicurare il tranquillo profitto della borghesia possidente, né le classi popolari sacrificate agli interessi di un’oligarchia finanziaria in pieno sviluppo. Occorre organizzare il contrattacco intorno alla chiara coscienza che la parola crisi, in bocca ai padroni, non è altro che un pretesto per attaccare i lavoratori, nella dignità e nel portafoglio.
[1]http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-06-18/nel-mondo-ci-sono-14milioni-ricchi-seduti-526-trilioni-dollari-italia-sono-203-mila–171029.shtml?uuid=ABEFsPSB
[2] http://www.huffingtonpost.it/2015/05/19/tito-boeri-poverta_n_7312104.html
[3] https://lottobre.wordpress.com/2015/04/30/jobs-act-meno-soldi-per-quasi-tutti/
[4] http://www.istat.it/it/files/2014/05/cap5.pdf
[5]http://www.economy2050.it/salvataggi-bancari-contribuenti-speculazione-banche/; https://storify.com/gr_grim/largo-ai-tecnocrati
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