La legge sul lavoro, chiamata Jobs Act perché fa figo, è l’unica attività concreta su cui il Governo Renzi si sia impegnato fin dall’inizio del suo mandato. E a ragione. Tutta Europa aspetta di poter approfittare della manna sottopagata del lavoro italiano usa e getta. Per le aziende si tratta di una questione di vita o di morte: rimpinguare i profitti tagliando sui costi fissi dei salari, con l’abbattimento strutturale del monte stipendi. Si chiama competitività. Nel gergo tecnocratico si dice : riforme strutturali.
I governi eseguono ognuno a suo modo. Il modo italiano si è sviluppato, con nuova e sorprendente efficacità, così:
Che cosa si nasconde dietro la formula sbarazzina del Jobs Act
La legge n.78 del 20 marzo 2014, noto come « Decreto Poletti », fu il primo intervento del Governo Renzi in materia di lavoro, nonché il primo atto concreto della sua azione legislativa. Vi fu in seguito il decreto delega sul lavoro, che diventa definitivo come Legge delega n.183 del 10 dicembre 2014. Essa prevede che il governo adotti entro 6 mesi dall’entrata in vigore della legge i decreti finalizzati al riordino della normativa in materia di lavoro. Entro 12 mesi dall’entrata in vigore dei decreti, il Governo potrà inoltre adottare diposizioni integrative e correttive agli stessi. Ne risulta che il processo legislativo partito in dicembre 2014 prevede la « consegna » dei decreti entro giugno 2015, e la loro eventuale correzione e modifica entro giugno 2016.
Nel quadro dell’attuazione della delega, il ministro del Lavoro ha proposto tre decreti, esaminati nel Consiglio dei ministri n.51 del 20/02/2015. Il primo – sui nuovi contratti a tutele crescenti – e il secondo – sulle nuove forme di sussidi di disoccupazione – sono entrati in vigore il 7 marzo; un terzo – sul riordino della disciplina dei rapporti di lavoro – è in fase di esame preliminare.
Agli occhi dei lavoratori, il contenuto del decreto Poletti e dei decreti seguenti è riassumibile così: licenziabilità, demansionamento e cattiva occupazione.
Licenziabilità poiché per via del nuovo contratto a tutele crescenti si introduce una nuova disciplina che facilita i licenziamenti individuali e collettivi, e la si estende surretiziamente anche ai vecchi contratti a tempo indeterminato (come delineato nell’articolo 7 del DDL e poi specificato nel decreto attuativo) nel caso in cui le aziende superino grazie alle nuove assunzioni i 15 dipendenti. Esse saranno dispensate dall’adattarsi ai criteri stabiliti della legge del 1970, nota come «articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ».
Coi contratti a tutele crescenti si delinea lo svuotamento delle garanzie contro i licenziamenti ingiustificati, poiché viene abolito il reintegro. In compenso, gli imprenditori se la cavano con una misera contropartita monetaria che va dai 4 ai 24 mesi per le grandi aziende, e da 2 a 6 per le piccole, in funzione dell’anzianità di servizio del lavoratore messo alla porta.
Il contratto a tutele crescenti – ovvero niente tutele per tre anni e poi licenziabilità facile – è dunque il cavallo di Troia che permette al Jobs Act di estendere a tutti i contratti a tempo indeterminato – passati, presenti e futuri – le non-garanzie che pesavano fin d’ora solo sui lavoratori non coperti dall’articolo 18. Quindi di fatto depotenzia l’istituto del contratto a tempo indeterminato, che di indeterminato mantiene solo il nome.
È necessario sottolineare che la profonda ingiustizia contenuta nell’articolo 18, il quale si applica solo ai lavoratori delle « grandi » aziende, fu il motivo per il quale il Partito Comunista non votò la legge del 1970 – promossa da DC e socialisti – considerandola blanda e discriminatoria. Il fatto che la sinistra odierna sia riuscita a smantellare anche questo povero riparo dei lavoratori ci indica quanto sia reazionario il contesto nel quale ci muoviamo, e quanto la sinistra borghese non rappresenti in alcun modo gli interessi dei lavoratori nell’attuale parlamento.
È chiaro infatti che nessuna ricetta imponeva di rendere tutti licenziabili d’ufficio al fine di eliminare le disuguaglianze di trattamento fra lavoratori; si sarebbe al contrario potuto riflettere all’estensione dell’articolo 18 ai dipendenti delle piccole aziende.
Alla luce dei decreti, appare chiara la strumentalità e l’ipocrisia degli appelli governativi all’uguaglianza di trattamento dei lavoratori per giustificare tale legge.
Tuttavia il percorso era segnato fin dall’inizio, quando col Decreto Poletti il Governo Renzi si presentò agli imprenditori con un regalo sui contratti a termine e gli apprendistati, modificando in peggio la precedente legge Fornero che già aggrediva le tutele contro i licenziamenti arbitrari. Venne elevata da 12 a 36 mesi la durata del contratto a termine per il quale non è più richiesta la causalità. Consentendo così al datore di stabilire contratti senza causale, il lavoratore resta in balia dell’incertezza e dell’arbitrio più assoluto sul proprio futuro. Il nuovo contratto a termine è prorogabile per 8 volte entro il limite dei tre anni e fra un contratto e l’altro non esiste più l’obbligo di una pausa di dieci o venti giorni. Considerando un massimo di otto proroghe i rinnovi possono essere uno successivo all’altro. Chiaramente l’obiettivo è di invitare i datori di lavoro a servirsi di tale strumento piuttosto che stabilizzare i lavoratori a tempo indeterminato. Nessun problema, col Jobs Act potranno assumerli con un contratto a tutele crescenti per altri tre anni !
Per quanto riguarda invece il demansionamento e la cattiva occupazione vi sono nei decreti in esame preliminare diversi spunti interessanti. Il padrone potrà imporre al lavoratore di esercitare mansioni inferiori per le quali non era stato assunto, o mansioni più elevate senza corrispettiva contropartita salariale. Inoltre nel quadro dei part-time egli potrà pretendere straordinari non retribuiti. Viene poi confermato e ampliato il voucher, una forma contrattuale particolarmente infame, senza tredicesima, contributi e completamente gratuita per il datore.
Per quanto riguarda la precarietà, è prevista infine l’eliminazione della causale per il rinnovo ad vitam eternam dei contratti di somministrazione, che diventano di fatto dei contratti precari senza tutele a tempo indeterminato. E per finire in bellezza, si apre la porta alla contrattazione individuale: in tali condizioni essa non può che configurarsi come un terribile abbattimento del potere negoziale del lavoratore nei confronti del datore. Solo contro l’azienda il futuro lavoratore sarà obbligato ad accettare di tutto. E di tutto, di questi tempi, vuol dire molto poco.
Come è stato possibile che una regressione sociale di tali proporzioni sia diventata legge dello Stato
Il Governo Renzi non ha certo fatto tutto da solo. Questa legge contro il lavoro è il compimento di un processo storico di de-legislazione, che noi chiamiamo controriforme, volta a smantellare le garanzie acquisite in Italia dal dopoguerra in poi. Esso si compone di tre tappe fondamentali.
Il percorso verso la “flessibilità” comincia nel 1997, quando la Commissione Europea invita gli Stati membri ad avviare una riforma dell’organizzazione del lavoro nelle fabbriche e negli uffici finalizzata a un’impresa maggiormente flessibile. L’Italia recepisce la direttiva con la Legge 196 del 1997 anche nota come Pacchetto Treu. Con essa si intraprese il cammino della flessibilità del rapporto di lavoro e delle agenzie interinali.
In questa direzione la Legge 276 del 2003 nota come Legge Biagi impose ben 46 configurazioni contrattuali di lavoro. Questa legge fu un tipico esempio di alunno che per troppo zelo e voglia di stupire, sorpassa le richieste del maestro. Essa dette corpo alla precarietà permanente che stupì l’Europa. La miseria scese sui giovani « co.co.pro e co.co.co.», con stipendi ridicoli, precarietà e nessun diritto.
Il pacchetto Treu e la legge Biagi si occuparono dunque di realizzare la flessibilità in entrata, ovvero la possibilità per le aziende di assumere manodopera sottopagata con contratti a termine non tutelati. Fu un successo, produsse milioni di giovani lavoratori poveri.
Tuttavia alle aziende restava il problema della flessibilità in uscita, ovvero la libertà di licenziare agevolmente i lavoratori già assunti coi contratti tutelati, figli di un’epoca più progressista, per poterli riassumere alle stesse mansioni coi nuovi contratti – a tutele crescenti, part-time, di somministrazione o a tempo determinato – e così dimezzare i salari e le prestazioni sociali connesse. Il Jobs Act servirà proprio a questo.
Per concludere
ll Jobs Act aveva dunque la strada spianata di fronte alla sua approvazione. La forza e la pressione del mondo degli affari, la sinistra borghese al governo, l’ideologia liberale delle facoltà di economia e la propaganda dei giornali e televisioni in mano ai capitalisti. Al Governo Renzi non restava dunque che completare l’opera, e lo ha fatto. La stampa padronale incensa il suo nuovo Cesare, mentre la gabbia si chiude intorno ai lavoratori.
D’ora in poi un altro capitolo si apre sul fronte legislativo: dopo aver precarizzato le assunzioni, liberalizzato la licenziabilità, tagliato gli stipendi, non resta che attaccare i diritti fondamentali quali le ferie pagate, la contrattazione collettiva, il diritto di sciopero e il diritto alla previdenza sociale.
Deve essere chiaro ai lavoratori che sarà ciò di cui si occuperanno necessariamente i prossimi provvedimenti legislativi sul lavoro. Vista l’efficacità di cui fanno prova i nuovi governi italiani, ad orizzonte giugno 2016, data limite per la correzione dei decreti nel quadro del Jobs Act, molti di queste nuove controriforme potranno già essere state messe in cantiere.
Cercheremo di sorvegliare e analizzare l’attività legislativa del Governo in materia di lavoro, al fine di allertare i lavoratori sul vero contenuto e i veri pericoli nascosti tra le pieghe di articoli e commi spesso oscuri.
Fonti:
[…] precedenti articoli sul Jobs Act eravamo giunti ad alcune importanti conclusioni riguardo i veri obiettivi del governo. Da una […]
[…] analizzato in un precedente articolo l’impatto potenziale dei nuovi contratti introdotti dal Jobs Act in termini di…. Eravamo giunti alla conclusione che il processo legislativo in corso – l’unico atto concreto […]
[…] è a uno stadio ben più avanzato che in Francia (per le precedenti analisi sul Jobs Act leggere qui et qui) – stanno cercano di passare al taglio delle pensioni, cominciando con quelle di […]
[…] Act ciò che rimaneva di 60 anni di Codice del lavoro in Italia, il governo mette in cantiere, come ampiamente previsto, l’intervento demolitore di uno dei più importanti pilastri dello Stato sociale: le […]
[…] due anni ormai dall’entrata in vigore del Jobs Act la situazione lavorativa non smette di degradarsi. E non è una questione che tocca i soli operai […]
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